|
Read Ebook: Gli albori della vita Italiana Conferenze tenute a Firenze nel 1890 by Various
Font size: Background color: Text color: Add to tbrJar First Page Next PageEbook has 637 lines and 122128 words, and 13 pagesGLI ALBORI DELLA VITA ITALIANA O. Guerrini, P. Villari, P. Molmenti, R. Bonfadini, R. Bonghi, A. Graf, F. Tocco, P. Rajna, A. Bartoli, F. Schupfer, G. Barzellotti, E. Panzacchi, E. Masi. QUARTA EDIZIONE. MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897. PROPRIET? LETTERARIA Tip. Fratelli Treves. LE CONFERENZE DI FIRENZE SU GLI ALBORI DELLA VITA ITALIANA Ci sembra necessario far conoscere come queste Conferenze, che levarono tanto rumore quando furono pronunciate e che ora si pubblicano per le stampe, ebbero origine e come e dove furono tenute. Per soddisfare a questo desiderio, riproduciamo a mo' di prefazione un articolo pubblicato nell'ILLUSTRAZIONE ITALIANA del 29 giugno 1890. Cos? diceva un manifesto che portava in calce alfalbeticamente disposti, i nomi di Guido Biagi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Francesco Gioli, Diego Martelli, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi, Pasquale Villari, e che, distribuito ne' salotti fiorentini e forestieri e commentato in varie lingue dalla viva eloquenza di apostoli convinti, ebbe la fortuna d'essere accolto con ogni favore. L'idea d'una serie di letture sopra un determinato argomento parve utile e buona: avrebbero almeno servito all'intento di farci conoscer meglio una parte della nostra vita passata e ricondotto a Firenze uomini di chiara fama, la cui voce da un pezzo non avea risuonato fra noi. Cos? and?, e -- lasciatemelo dire -- and? proprio bene! PRELUDIO DI OLINDO GUERRINI Quando, egregie signore e signori, quando l'autore ha compiuto l'opera, allora comincia a pensare alla prefazione. Cos? il signore Iddio, dopo aver creato dal nulla l'Universo, pens? alla prefazione -- all'uomo -- e lo cre? ultimo, a propria imagine e somiglianza. Ma il pubblico, che non ? iniziato ai misteri della tecnica d'arte, e ignora, per fortuna sua, con quali artifizi si costruiscono un libro o un dramma musicale, crede ingenuamente che l'opera sia stata pensata ed eseguita in quella stessa successione di tempi e di idee in cui la trova disposta. Crede cio? che l'autore abbia cominciato dal principio e finito colla fine; e che la prefazione o il preludio, che stanno sul limitare del libro o del dramma, sieno stati i primi, in ordine cronologico, ad esser composti. E il buon pubblico erra. Che se, del resto, ragionasse soltanto per analogia, si convincerebbe subito che una gran parte delle faccende di questo mondo, contro ogni canone apparente di logica, non cominciano dal principio. Sembra un paradosso, ma ? un fatto di tutti i giorni. Quante spese, per esempio, fatte prima d'avere i denari! Tutta la teoria del credito ? fondata appunto su questa facolt? particolare dell'uomo di poter cominciare dalla fine. Quanti dottori esercitano la professione prima d'averla studiata; quanti sonetti si cominciano a scrivere dall'ultimo verso, quanti romanzi si cominciano a leggere dall'ultimo capitolo. Quante affermazioni prima della certezza, quanti giuramenti prima della convinzione, quante nozze prima dell'amore! L'uomo ? un essere perfettamente illogico; il che lo distingue dai bruti. Nel caso nostro poi ? legge di natura, fatale come quella della gravit?, che la prefazione debba esser fatta dopo il resto. Nella prefazione l'autore riassume il contenuto dell'opera, indica l'ordine, espone il metodo seguito e passa in rassegna le opinioni de' suoi colleghi sullo stesso argomento. Dimostra a luce meridiana, ci? s'intende, che tutti i colleghi e predecessori ebbero sempre torto marcio; pone delicatamente in dubbio lo stato delle loro facolt? mentali, la loro fedina criminale e il loro stato di famiglia, e dopo di averli spesso gratificati di molti ma non nobili titoli, passa a dimostrare la propria superiorit?, la virt? propria, il proprio genio. Ora tutte queste operazioni espositive non possono esser condotte a bene che ad opera compiuta, quando l'autore ha finalmente un'idea chiara di quel che voleva fare e di quel che gli ? riuscito di fare. Se la ciambella gli riusc? col buco egli la trasforma in altare e vi erige sopra un tempio nella prefazione, dove offre a s? medesimo la mirra e l'incenso, e fa la ruota in faccia agli ammiratori e tempera le saette per gli eterodossi. Se la ciambella poi, non che col buco, riusc? senza la minima traccia di soluzione di continuit?, allora l'autore, come potete credere, fa precisamente lo stesso, si erige l'altare, si fabbrica il tempio e gratifica s? stesso dei pi? puri e pi? grati incensi della rettorica. Poich?, dal giorno in cui fu trovata questa meravigliosa e matta arte dello scrivere, non fu mai scrittore persuaso di aver fatto un brutto libro. Che se mai ne nascesse un solo, in verit? vi dico, che in quel giorno il sole si oscurer? perch? sar? prossimo il giudizio universale. Ad ogni modo, per tornare in carreggiata, qualunque sia il genere o la fortuna dell'opera, resta fissata questa legge che la prefazione si fa per l'ultima. E se non bastassero le prove addotte, basterebbe pensare un poco al preludio di un dramma musicale. Ivi il maestro espone o riassume i motivi principali dell'opera, quasi li racconta ad uno ad uno al pubblico, il quale per lo pi? non ? loro avaro di applausi d'incoraggiamento in principio, quanto ? prodigo poi di energici fischi di scoraggiamento alla fine. Ma se l'infelice maestro non avesse gi? finita l'opera, come potrebbe accennarne i motivi principali nel preludio? ? dunque provato che l'esordio si fa dopo la conclusione: il che era da dimostrare. Da quel che ho detto fin qui, risulta anche provata un'altra affermazione non meno inutile, che cio? la prefazione ? una instituzione antichissima. Il costume latino, anzi pi? precisamente italiano, vorrebbe qui che io vi sprofondassi meco nelle voragini della pi? oscura erudizione, in cerca delle origini della prefazione. Avrete notato infatti che presso di noi non si scrivono poche pagine sopra le cose meno importanti del mondo, se, col pretesto di illuminar bene il lettore, non si risale alle origini del genere umano. I pi? discreti si contentano della Bibbia. Molte volte vi sar? capitato in mano un opuscolo che parla di un quadro, di un coccio di maiolica o di un arazzo, e avrete visto che una buona met? ? spesa a ricordarvi le pitture degli Egizi, i vasi degli Etruschi, e le tele di Aracne. L'autore vi fa subito capire che vi stima ignoranti e v'insegna, bont? sua, che Jubal invent? la musica e Tubalcain la metallurgia. Gli atti e le memorie delle Accademie storiche od archeologiche, ora quasi esclusivamente consacrate allo studio assiduo delle pentole e dei pentolini storici e preistorici, primeggiano specialmente in questo comodo genere di pedanteria. ? incredibile come l'uso delle pentole fosse comune presso i nostri lontani progenitori e come fosse grande la malizia loro nel nasconderle sotto terra per fornir materia agli atti accademici; ma ? pi? incredibile ancora l'estensione e la profondit? che ha preso ai nostri giorni questa scienza dei pentolini, per cui gli archeologi moderni, dopo aver esposto tutta la storia della ceramica, da certi segni e da certe graffiature sanno dirci appuntino se il coccio fu di un Umbro o di un Ligure, se il vasaio fu bello o brutto, ammogliato o scapolo. Il che importa molto alla umanit? ed alla archeologia. La consuetudine italica del far precedere ad ogni pi? piccola cosa una storia completa e un profluvio di erudizione, somiglia molto al morbo della prefazione. ? sempre un preambolo che si volge bens? alla crassa ignoranza del lettore e non alla sua supposta simpatia, come accade per lo pi? nella prefazione veramente detta; ma come preambolo deve esser messo cogli altri. Ed anch'io per non esser meno buono italiano e meno felice proemiatore, dovrei seguire questa bella tradizione di erudita seccatura ed infliggervi il supplizio della storia e della preistoria della prefazione. Ma tanta ? la cortesia che mi avete dimostrato, e per la quale vi sono gratissimo, che sento l'obbligo di essere umano e vi risparmio la solita risalita della corrente dei secoli, la solita Bibbia e i Fenici e gli Egizi. I Romani, grandi corruttori d'ogni cosa, guastarono questa aurea e santa semplicit? greca, e la prefazione di Tito Livio, per quanto bella, non ? pi? cos? breve. A poco a poco il decadimento non ebbe pi? riparo e si giunse a tanto che Cicerone confessa ad Attico di aver pronta una raccolta di prefazioni che possono adattarsi a qualunque libro. A tanto giunge il demone della prefazione, e c'? chi sostiene che i primi capitoli sallustiani della congiura di Catilina e della guerra di Giugurta, non siano appunto che due prefazioni del genere delle ciceroniane, a doppio uso, come i sof? letti o le canne seggiole, poste in fronte al libro. Tanto e cos? esecrabile fu l'imperversare della prefazione, che il pubblico irritato, nauseato, si ribell?, e ai tempi di Plinio il giovane le prefazioni erano cadute in disuso. Quanti forse tra voi non si augurano ora il ritorno di quella felice rivoluzione! Ebbene, il pubblico ha sempre fretta. Vuol conoscere il libro e non l'autore. Questi gli sorride dietro le frasche della prefazione, gli strizza l'occhio e gli dice: guardami come son bello! Ma il lettore vuole il libro e non le smorfie: non cura gli sfoghi del povero autore che ha tanto bisogno di convincere il prossimo della perfezione dell'opera sua, di perorare, di persuadere; ma tira dritto, salta le prime pagine serenamente e comincia il libro. L'autore insiste, ma l'altro fa di peggio. Di qui una guerra accanita, di stratagemmi, di imboscate, d'insidie; qua per immergere proditoriamente un'acutissima prefazione nel cranio del prossimo, l? per schivare l'orribil colpo e punire degnamente lo scellerato aggressore. Le peripezie della lotta sono varie e la fortuna alterna. Oggi, per esempio, lo sorti volgono contrarie alla prefazione; il Dio delle battaglie sorride ai lettori. Vedete la poca fortunata resurrezione del prologo nelle commedie. Quando gli eventi della guerra favorirono gli autori, costoro infierirono sui miseri vinti ed inflissero loro il supplizio di questi prologhi che narrano anticipatamente la commedia e le lodi di chi la fece. Mutate le sorti, il prologo fu sepolto a suon di fischi. Ma eccolo, cadavere quattriduano, uscito dalla fossa, cos? sfiaccolato e bastonato che non c'? bisogno d'esser Profeti o Sibille per predire il suo prossimo ritorno alla pace del sepolcro. Vedete anche il preludio dei drammi per musica, il quale, o arieggia alla concisione greca, o si stacca dall'opera, sotto forma di sinfonia, e tende a vivere di vita propria e non parassitaria. Cos? abbiamo opere senza preludio e sinfonie senza opera, come segno certo della decadenza della prefazione e dell'abominio in che ? tenuta dal pubblico. Ma gli autori sono costanti, tenaci, testardi. Come i Pelli Rosse camminano cautamente nel sentiero di guerra, si appiattano alle cantonate dei librai e scuoiano senza piet? il povero ingenuo che cade nell'insidia. O si infingono come l'avvelenatore ed aspergono di falso liquore gli orli del vaso, cercando di fare inghiottire la prefazione sotto il nome di preludio, di preambolo, di esordio, di proemio, di avviso al lettore. O commettendo ad altri il mandato di perpetrare il misfatto premettendo al libro una lettera di amico illustre o le lunghissime due parole dell'editore. Non v'? furberia che non sia stata adoperata, non v'? lacciuolo che non sia stato teso. Il Manzoni invent? un brano di cronaca vecchia. Altri pi? basso e pi? tardi, trov? la gherminella dell'amico che pubblica i versi dell'amico morto ed abus? di tutti i pi? sacri sentimenti di piet? e di compianto pur di far scoccare l'indegna trappola della prefazione. Quando il lettore c'? caduto una volta, inferocisce, e vede dappertutto il fantasma della prefazione che lo perseguita. Poche prefazioni si sono salvate dalla fiera ecatombe, e si sono salvate perch? in fondo non sono prefazioni. Il prologo del Decamerone ? il racconto della peste, l'introduzione all'Enciclopedia una esposizione di principii filosofici, il proemio al Cromwel un codice di precetti d'arte. Si sono salvate, prima, certo, perch? belle, poi, certissimo, perch? impersonali. Infatti possono stare assolutamente senza il libro e non sono prefazioni che pel posto occupato nella paginatura. Tutte le altre sono involte nell'odio e nella maledizione, e il lettore che si sente inseguito dall'autore, gira alla larga, cogli occhi sospettosi; indovina il nemico, come la colomba lo sparviere; fiuta il pericolo da lontano, lo fugge coll'anima guasta e il fegato avvelenato, e non ha abbastanza vituperi, oltraggi e anatemi pel nemico che lo tribola e lo caccia, il fratricida Caino! Ma se gli odii e le vendette fra le parti belligeranti sono giunte a tale che per poco non si danno al cannibalismo, considerate che si tratta sempre di una prefazione scritta, di poche carte stampate che si possono non leggere o sopprimere, se cos? piace. Ma che avverr? quando la prefazione incarnata e fatta uomo, spinge la temeraria crudelt? fino a presentarsi ad un pubblico di persone ben educate e gentili quanto si voglia, ma non meno sensibili ai tormenti, non meno dolorosamente eccitabili al martirio di un preambolo? ? il mio caso. Io sono qui l'odiosa, l'orribile, la spaventosa prefazione, cosciente del male che fa e dell'avversione che desta. Io sono la prefazione eseguita contro ogni ragion tecnica dell'arte, cio? fatta prima dell'opera e non dopo. Io sono la vittima, ahim? non innocente! che gli autori hanno designato al sagrificio, la mascula Ifigenia che colla sua perdita deve propiziare i venti alle altrui navi. Si cercava Curzio che si gettasse nella voragine, Orazio al ponte, Muzio Scevola all'ara. Si volle uno che morisse pel popolo tutto, un candido agnello, una bianca colomba da offrire al nume irato su questo altare; ed eccomi, candido agnello, bianca colomba, accettante la passione, interceditrice per tutti. Che se la giusta fama della cortesia vostra non mi avesse persuaso, avrei respinto con orrore questo ufficio spietato di prefazione viva. D'altronde ricordai il detto di uno Svizzero arguto, secondo il quale l'amore prima del matrimonio ? una prefazione troppo corta ad un libro troppo lungo, e pensai di esser breve anch'io come l'amore, per conciliarmi la vostra benignit?. Quanto al matrimonio ci penserete voi ed i miei successori, contentandomi di augurarvelo felice e ricco di numerosa prole. Comincia dunque cos? un ciclo di letture in questa gentile e gloriosa Firenze, destinata, senza dubbio, dal suo fato a far attecchire finalmente in Italia questo genere d'arte e di coltura. Pur troppo, finora, presso di noi, anzi in tutti i paesi latini, i tentativi fatti non ebbero che risultati mediocri, mentre nei paesi nordici, e specialmente anglosassoni, la lettura e la conferenza ebbero ed hanno una vita vivace e lodata. Di chi la colpa? Un po' di tutti; dei lettori e del pubblico. I primi furono per lo pi? troppo inamidati, troppo accademici, e il pubblico troppo esigente, troppo facile alla stanchezza. Quest'arte deve ancor fiorire e fruttificare tra noi, e senza dubbio la palestra che una colta societ? apre oggi ai migliori ingegni italiani, giover? a far amare questi ludi minervali, e la prova sar? vinta. Poich?, non ? gi? che le razze germaniche siano dotate di maggior forza di resistenza fisica e morale, da sopportare letture di maggior peso che gli omeri nostri non possono tollerare. Non ? che gli uomini del settentrione, abituati fino dalla puerizia ad una ragionevole ginnastica del corpo e della mente, ne traggono muscoli pi? rigidi e nervi pi? tesi contro l'urto e lo sforzo della seccatura. No, poich? non v'? possa umana capace di resistere a tanto, e ve ne accorgete pensando soltanto che forza erculea si richiegga per reprimere un indiscreto sbadiglio. La ragione sta qui; che gli ascoltatori nordici hanno l'abitudine, ed i lettori l'attitudine alla conferenza. I protestanti hanno sostituito sermoni e conferenze alle nostre prediche, lasciando in disparte l'enfasi e la gonfiezza che dal Segneri in qua sciupano la nostra eloquenza sacra, ed accostandosi sempre pi? al fare piano e persuasivo delle lezioni e delle letture laiche, educando alla lor volta gli ascoltatori a questo genere d'arte e guidandoli a gustarlo ed a compiacersene. Cos? i lettori e gli ascoltatori, anche per questo, si sono raffinati ed educati, e tra loro vibra spesso quella corrente di simpatia che ? indispensabile perch? una lettura non riesca a male. Infatti una conferenza ? una grande gabbia, dove sono chiusi due cani, o mettiamo due bestie pi? nobili, due leoni, che debbono passare un'ora insieme. Cominciano a guatarsi, a scodinzolare e ad annusarsi. Se c'? la corrente di simpatia, l'ora passer? bene; se la simpatia non c'?, accade la baruffa e uno dei duellanti ? inevitabilmente accoppato. Cos? se la corrente ipnotica non si stabilisce tra il conferenziere e gli ascoltatori; o il primo fa morire i secondi coll'asfissia, o i secondi ammazzano il primo colla disapprovazione. In ogni caso poi, qualunque dei due abbia la peggio, chi muore veramente e di mala morte, ? l'instituzione. Il giusto, secondo il solito, muore pel peccatore. Ora, se altrove questa corrente di sensi simpatici fra i lettori ed il pubblico ? diventata quasi abituale, purtroppo dobbiamo confessare che in Italia non ? frequente. E la ragione ? facile. Le conferenze sono freddolose; una temperatura mediocre le ammazza subito, ? finch? le signore non si decideranno a frequentare con assiduit? questi convegni dove l'arte o la scienza le desiderano, l'ambiente sociale e morale sar? sempre freddissimo. La donna, che ha i nervi pi? forti dell'uomo, tanto che riesce a ballare un carnevale intero senza stancarsi, si spaventa troppo facilmente all'idea di un piccolo sforzo di attenzione. La sua nativa delicatezza rabbrividisce all'idea di un quarto d'ora di raccoglimento. E se qualche lettore non la contenta, generalizza troppo e si sdegna colla instituzione intera, la sfugge e colla sua assenza la fa morire gelata. Se le signore sapessero come la loro presenza riscaldi, come i loro begli occhi illuminino questi convegni, quanto calore e luce e vita diano a tutte le cose umane il loro aspetto e la benevolenza loro, come voi, egregie Signore, sfiderebbero il pericolo di qualche momento non perfettamente allegro, mosse dall'idea di far un'opera bella, utile e veramente degna della fine cortesia femminile. Che se v'ha certezza di buona riuscita per questa colta societ? che promove le letture, essa sta tutta nella felice conciliazione dell'opera intrapresa, colle simpatie e colla lieta presenza dell'eterno femminino. Se in Italia poi ? citt? alcuna pi? degna di dar vita a simili imprese e dove pi? fausti sorridano gli auspici, senza dubbio ? questa -- la cara e gentilissima Firenze -- dove le conferenze sembrano esser nate, e dove certo per lunghi secoli vissero prosperamente. Quando la caligine del medio evo cominci? a diradare, e gli uomini, che tornavano a sentirsi giovani, credettero alla bellezza ed all'amore, su per questi giocondi colli fiorentini, fuggendo la mor?a e lo spavento, tre giovani e sette fanciulle cominciarono il pi? lieto corso di conferenze che sia mai stato. Infatti, che altro ? il Decamerone se non una serie di conferenze amorose, ora geniali, ora brutali, scintillanti ancora dell'arguzia fiorentina, spiranti ancora l'alito dell'antica vita italiana? Ma passata la gaiezza della fiorente giovent?, quando la dolce fiamma dell'amore fu spenta, un'altra illusione sorrise agli ingegni fiorentini, l'illusione della filosofia. Ed in questa disperata ricerca dell'ideale, in questa speranza sempre vana di sapere il perch? delle cose, ecco rinascere la conferenza, e il Ficino negli Orti famosi, parlare ai fratelli in Platone e cercare affannosamente le prove del Cristianesimo nella filosofia nata gi? sotto i platani e gli olivi di Acad?mo. E rifiorirono le belt? dell'arte, frondeggi? l'albero della scienza in questa Atene italica che dell'antica ebbe tutto, il genio, la gloria e talvolta anche i vizi. Caduta la giovinezza con l'amore, sfiorita colla speranza la virilit?, venne il doloroso periodo della scienza che ? fatta di disillusioni e di scetticismo. Gi? il Machiavelli leggeva i discorsi sulle Deche negli Orti neoplatonici e cercava, non pi? le recondite ragioni dei fenomeni universali, ma il segreto dei fatti e delle coscienze contemporanee. Il vero, il freddo vero, rimane immobile e terribile sulle ruine degli ideali e dei sogni caduti. Agli entusiasmi dell'amore, della fede, della speranza, succedono, come i vecchi ai giovani, i severi studii della realt? e della esperienza, e in questo radioso e divino sole di Toscana, Galileo trova e numera le macchie. L'Accademia del Cimento notomizza la natura, l'Accademia della Crusca notomizza la lingua. Non ci sono pi? entusiasmi e tutta una generazione di vecchi frigidi, lavora matematicamente precisa a scrutare, a compilare, a raccogliere; ma sul suolo spossato la pianta della conferenza vegeta ancora, diventata scientifica, erudita o anche pedante, pur tuttavia verde e vitale. Persino gli ultimi e pi? cinerei tempi della decadenza la videro trasformata in misere cicalate, ridotta ai puri lenocinii della lingua, ultimo belletto alla decrepitezza del pensiero; ma la videro tuttora, quasi a testimoniare della sua tenace vitalit? in queste propizie aure toscane. Le annose radici gettarono polloni ancor verdi fino a che i tempi furono maturi e compiuti. Ed ora, rinnovata ogni cosa nella vita sociale, politica e letteraria, ecco di nuovo la conferenza antica che, sotto forma di lettura, ringiovanita e rinnovata, si ripresenta ai colti fiorentini, non immemori delle gloriose loro tradizioni. E cos?, uscita dal pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e guata il passato e si propone di dipingervi per ora il lontano periodo delle origini, il principiare dei Comuni, della Monarchia, del Papato, della lingua e dell'arte. Eccola, sotto il patrocinio di illustri uomini, col decoro di celebri nomi, ricordarvi che, nata gi? in Firenze, a voi, concittadini suoi, spetta il farle accoglienze oneste e liete ed assicurarle vita duratura. Eccola, per indegno ambasciatore, rivolgersi fiduciosa a voi, graziose signore, chiedendo la benevolenza e l'amor vostro che vivifica, riscalda ed illumina. Eccola, infine, ad implorare la vostra cortese piet? per la vittima della prefazione. NOTA. Alle letture fiorentine doveva preludere l'onor. Ferdinando Martini. Ma l'illustre uomo, trattenuto a Roma da gravi doveri, non pot?, ed io fui chiamato a sostituirlo. Grato agli egregi amici che pensarono a me ed a tutti coloro che benevolmente mi accolsero e festeggiarono, mi ? forza per? far noto ai lettori come fu fatta questa conferenza; cio? quasi all'improvviso. Ed essendo prefazione ad un libro ancora da farsi, non poteva darne che cenni vaghi con parole inconcludenti. Si trattava di menare il can per l'aia un paio di quarti d'ora, tanto per cominciare. Il che mi sia di scusa presso coloro che cercheranno qualche cosa qui, e non la troveranno. O. G. LE ORIGINI DEL COMUNE DI FIRENZE PASQUALE VILLARI Gli antichi si trovarono dinanzi a questa medesima difficolt?. Ma essi seguirono un metodo molto semplice. Il Villani ed altri cronisti, non trovando notizie sulle origini di Firenze, ci dettero una leggenda, che non ha nessun fondamento storico, e non ha neppure la poesia che si trova nelle leggende che circondano le origini di Roma e delle citt? della Grecia. ? una leggenda, invece, che qualche volta manca addirittura di senso comune. Basti dire che in essa ci si descrive la moglie di Catilina, che, il giorno della Pentecoste, va a sentire la messa nella Canonica di Fiesole. Bisogna quindi ricorrere ai documenti; ma i documenti fiorentini che noi abbiamo, cominciano quando gi? il comune esisteva da un pezzo. ? naturale che il Comune non potesse fare dei trattati, delle leggi prima di cominciare ad esistere. Abbiamo quindi bisogno d'aiutarci colla storia generale del tempo, coi documenti posteriori, o di altri luoghi vicini; di interpretare delle frasi; fare delle indagini, per potere, retrocedendo con la induzione, cercare la spiegazione degli avvenimenti anteriori. E cos? ? che a voler fare davvero una buona conferenza sulle origini di Firenze, bisognerebbe farla estremamente noiosa. Ma si dir?: perch? scegliere allora un tale argomento? Ve ne sono tanti nella storia d'Italia meno oscuri e pi? dilettevoli. Perch? scegliere questo appunto delle origini? Il vero ? che esso ha pure la sua grande importanza, la quale risulta da pi? e diverse cagioni. E prima di tutto ve n'? una assai generale. Il Comune italiano ? una istituzione che cre? la societ? moderna. Il Medio Evo non conosceva lo Stato; l'Europa era divisa in castelli feudali, in associazioni, quasi in piccoli gruppi e frammenti. Al di sopra di questi frammenti, in cui la societ? si era sgretolata, v'erano due grandi, due universali istituzioni: l'Impero e la Chiesa; l'Impero, che rappresentava il principio giuridico e politico del mondo; la Chiesa, che rappresentava l'unit? del principio religioso. Ma queste due istituzioni, appunto perch? universali, non potevano favorire la costituzione dello Stato moderno, nazionale. Il Comune si pose a tale opera, e gett? le basi dello Stato moderno. Il Medio Evo non conosceva la civile uguaglianza; l'aristocrazia era una casta separata dal resto della popolazione; essa in Italia rappresentava il sangue straniero. I lavoratori, specialmente i lavoratori della terra, non erano liberi, erano attaccati alla gleba, erano in condizioni servili. Il Comune italiano proclam? l'indipendenza del lavoro, l'uguaglianza degli uomini. Queste sono le basi su cui si fonda la societ? moderna; e cos? noi, studiando le origini del Comune, veniamo come a studiare le origini della societ? di cui facciamo parte, a cercare quasi le origini del nostro proprio essere civile. Quindi ? che tutti i problemi, i quali si riferiscono alle origini dei Comuni italiani hanno una grande importanza, destano un singolare interesse. Questa ? anche la ragione per la quale si ? tanto disputato, per sapere se il Comune discendeva dalle istituzioni e dalla cultura romana o doveva invece la sua esistenza ad un principio nuovo, portato fra noi dai popoli germanici, i quali avrebbero cos? avuto il vanto d'aver messo le prime basi alla moderna civilt?. Il patriottismo si ? mescolato in questa disputa, ed ha reso sempre pi? difficile il trovare una soluzione imparziale e scientifica. Ma pel Comune di Firenze v'? ancora una ragione speciale, che rende maggiore la sua importanza, e pi? vivo il desiderio d'indagarne le origini. Esso ? il pi? democratico di tutti quanti i Comuni italiani, ? quello che ha pi? di tutti lavorato per l'uguaglianza civile degli uomini. Uno storico, assai celebre, il Thiers, appunto per questa ragione, aveva deciso di dedicare gran parte della sua vita alla storia di Firenze. Egli diceva: nessun altro Comune ha, nel Medio Evo, affrontato tanti problemi economici, politici, sociali, e nessuno s'avvicin? tanto alla loro soluzione; nessun cre? un cos? gran numero di nuove, ingegnose, mirabili istituzioni, come il Comune di Firenze. Ed aveva perci? in molti anni raccolto una vasta serie di materiali, che andarono poi bruciati al tempo della Comune di Parigi. Ma vi ? di pi?. La storia fiorentina si pu? dire che sia a tutti noi notissima. Nessun paese in fatti ha avuto un cos? gran numero di sottoscrittori che l'abbiano illustrata. Ogni avvenimento, ogni individuo, ogni pietra di Firenze fu oggetto di lunghi studi, di dotte ricerche. Le sue rivoluzioni furono descritte con grande eleganza di stile, ed i personaggi che si presentano nella sua storia, sono a noi tutti famigliarissimi. Ma, ci? non ostante, la storia di Firenze apparisce assai spesso come un enigma. Rivoluzioni succedono a rivoluzioni, senza che noi possiamo capire il perch? di tanta irrequietezza. Questo popolo sembra non avere e non lasciar mai pace e nessuno. Per un matrimonio avvenuto in un modo piuttosto che in un altro, perch? il Buondelmonti, invece di sposare l'Amidei, sposa la Donati, non basta averlo pugnalato sul Ponte Vecchio, ai piedi della statua di Marte; ma la cittadinanza intera si divide in Guelfi e Ghibellini, che lacerano la Citt? per secoli, e non si acquetano mai fino a che non sorge la tirannide ad opprimerli tutti. E vien fatto qualche volta di chiedere: che cosa vogliono questi Fiorentini, che empiono continuamente di tumulto e di sangue le strade della loro bella citt?? Perch? non posano mai? Sono essi cos? assetati di sangue, cos? pieni del desiderio della vendetta, da non poter trovare n? lasciare tregua a nessuno? Ma quando ci facciamo questa domanda, il mistero cresce ancora pi?, perch? in mezzo a tanto tumulto, noi vediamo fiorire splendidamente le arti della pace. Il commercio, le industrie dei Fiorentini riempiono colle loro manifatture tutti quanti i mercati dell'Europa, dell'Oriente e dell'Occidente. E, come se questa contraddizione fosse poca, a crescere ancora pi? il mistero, noi vediamo qui sorgere le pi? pure, le pi? ideali immagini che la mente umana abbia mai saputo creare. La Beatrice di Dante, la Santa Cecilia di Donatello, le Madonne di Luca della Robbia, i Santi, gli Angeli di Benozzo Gozzoli e di Beato Angelico sorgono in mezzo a questo tumulto infernale, cos? splendidi e numerosi, che noi siamo spinti a domandarci: di dove mai essi vengono? chi li ha creati? Essi sembrano discesi in una bolgia infernale, come l'Angelo di Dante, che, a piedi asciutti, sdegnoso, frettoloso, traversa la palude Stige, rimuovendo con la mano dal viso le ingrate esalazioni. E allora nasce la speranza, che forse, studiando le origini del Comune, vedendo in che modo esso fu costituito, di dove questa societ? ? partita, dove si ? fin dal principio indirizzata, la ricerca, per quanto arida, per quanto penosa ed incompiuta, possa gettare una qualche luce sugli avvenimenti posteriori della storia fiorentina. Ed ? perci? che gli scrittori moderni si sono oggi pi? che mai rivolti nuovamente a studiare le origini di questo Comune. Cerchiamo dunque di affrontare l'arido problema. E qui ho bisogno di raccomandarmi non solo alla vostra indulgenza, ma anche a tutta la vostra pazienza. La leggenda prosegue dicendo che Attalante ebbe varii figli, uno dei quali, Dardano, and? a fondare la citt? di Troia, e quindi narra l'assedio e l'incendio di questa citt?, la fuga di Enea, l'origine di Roma. E qui si salta a Catilina, che venne a Fiesole, inseguito dai Romani, comandati da un generale, il quale si chiamava Fiorino, e fu disfatto sulle rive dell'Arno. Cesare allora venne a vendicarlo, e fond? in suo onore, sull'Arno, la citt? di Firenze, la quale fu costruita come una piccola Roma, con tutti i monumenti che erano nella Citt? eterna, il Campidoglio, l'Anfiteatro, le Terme, il Foro, e fu chiamata perci? la piccola Roma. Vengono poi i barbari, e Totila distrugge Firenze; ma Carlo Magno la ricostruisce. E finalmente arriviamo alla guerra che Firenze muove a Fiesole, distruggendola. Che cosa possiamo noi cavare da questa leggenda, la quale fu certo compilata nel secolo duodecimo, il secolo cio? in cui nacque il Comune fiorentino? Innanzi tutto ne caviamo, che nel secolo in cui Firenze nasceva, i Fiorentini avevano la mente piena di idee e di tradizioni romane. Qui noi non troviamo tracce di tradizioni germaniche, anzi la leggenda sembra respingerle sdegnosamente ogni volta che si presentano. In una delle sue compilazioni, si ricorda essere stata opinione molto diffusa, quella che diceva la famiglia Uberti venuta di Germania, discesa dall'imperatore Ottone. Ma ci?, si aggiunge subito, ? un errore, perch? gli Uberti discesero invece dal sangue di Catilina "nobilissimo re di Roma,,. Questi ebbe un figlio, Uberto Cesare, a cui una moglie fiesolana dette 16 figliuoli, uno dei quali fu mandato da Augusto a sottomettere la Sassonia, che s'era ribellata, e col? spos? una dama tedesca, da cui nacque Ottone imperatore. E cos? non sono gi? gli Uberti discesi dagl'imperatori tedeschi; ma gl'imperatori sono discesi dagli Uberti di Firenze, i quali vengono dal sangue di Catilina romano. La leggenda ci dice ancora che tra Fiesole e Firenze vi fu un antagonismo perpetuo. Fiesole infatti ? citt? etrusca, Firenze citt? romana. Tutti i nemici di Roma sono, secondo essa, nemici di Firenze; tutti gli amici di Roma sono amici di Firenze; Cesare, Fiorino, Augusto. Carlo Magno ? quello che ricostruisce Firenze, dopo la distruzione fattane da Totila, ed esso ? il restauratore dell'Impero. Totila rappresenta i barbari che lo distrussero. Catilina, nemico di Roma, ? l'amico di Fiesole, il nemico di Firenze. Quanto alla notizia poi che ci d? la leggenda, della distruzione di Firenze per opera di Totila, essa non ? vera che in parte. ? certo che Totila coi Goti venne in Toscana, verso la met? del sesto secolo, la oppresse, la saccheggi?, entr? in Firenze, e la tratt? assai duramente, ma non la distrusse. Se non che Firenze allora, e durante tutto il dominio dei Longobardi, cadde in una cos? grande oscurit?, che par quasi scomparsa dal mondo, e nei documenti ? qualche volta menzionata, come se non fosse altro che un borgo di Fiesole. La leggenda esprime tutto questo, dicendo che Totila distrusse Firenze. E siccome essa incominci? finalmente a risorgere alquanto al tempo dei Franchi, sotto Carlo Magno, cos? la leggenda, seguendo sempre lo stesso metodo, dice che Firenze fu ricostruita da Carlo Magno. Questi vi si ferm? per celebrarvi il Natale nel 786, e dopo di lui molti Imperatori, trovandola sulla via di Roma, dove andavano a prendere la corona, vi si fermarono del pari. Pi? volte ci vennero anche i Papi, quando i frequenti tumulti popolari li cacciavano dalla Citt? eterna. Alcuni di essi morirono a Firenze, dove tennero Concilio, ed Alessandro II vi fu eletto. Certo ? che le continue relazioni di Firenze con Roma cominciarono a farla risorgere alquanto dalla profonda oscurit? in cui era caduta durante il dominio longobardo. Questo stato di cose dur? fino ai tempi della contessa Matilde, la quale comandava nella Toscana, ed in gran parte dell'Italia centrale. Essa si trov? trascinata nella lotta fra l'Impero e la Chiesa, fu severa contro quelle citt?, quei conti e nobili che non s'univano a lei, ma favorivano l'Impero. ? questo il momento in cui Firenze, stata quasi sempre amica dei Papi, cominci? a prosperare, senza che per? il Comune si fosse ancora formato. Il vederlo cos? tardi apparire ? un fatto che stimol? continuamente l'attenzione degli storici, i quali non si seppero rendere ragione del perch? un Comune che poi progred? con tanta rapidit?, dovesse essere quasi l'ultimo a sorgere. Infatti esso ci si presenta, non solamente dopo i Comuni di Venezia, di Amalfi, delle principali citt? marittime, che precedettero tutte le altre; non solamente dopo i Comuni lombardi; ma anche dopo i Comuni stessi della Toscana. ? questo un altro dei tanti misteri, che troviamo nella storia di Firenze. E qui si presenta una prima osservazione, la quale giova anch'essa a spiegarci, perch? mai il Comune fiorentino nacque pi? tardi degli altri. La condizione geografica di Firenze ebbe in ci? una parte grandissima. Se la citt? si fosse trovata sulla pianura, come Lucca e Pisa; se si fosse trovata sulla collina, come Siena, Arezzo, i nobili avrebbero avuto interesse ad entrarvi, perch? i cittadini, che alla nobilt? erano avversi, avrebbero avuto non piccolo vantaggio nell'assalire i castelli nella valle o nella pianura. Ma Firenze essendo invece nella valle, circondata da colline, sulle quali erano moltissimi castelli che l'accerchiavano, i nobili avevano una posizione vantaggiosa, che tornava loro conto mantenere, perch? cos? potevano pi? facilmente minacciare e vincere la cittadinanza. Da questo fatto vennero due conseguenze. La prima fu che il Comune fiorentino, col suo territorio, come dice il Villani, tutto incastellato, stretto cio? da un cerchio di castelli feudali, non poteva facilmente espandersi; e cos? il suo nascere e la sua indipendenza furono da tali condizioni ritardati. La seconda conseguenza fu, che tra i nobili e gli abitanti della Citt?, la maggior parte dei quali erano commercianti o artigiani, nacque un antagonismo molto pi? profondo e duraturo, che non si vide a Pisa, a Siena, a Lucca, in alcun altro dei Comuni italiani. La democrazia e l'aristocrazia si trovarono di fronte, separate in due campi avversi, senza potersi fra loro mai conciliare. Add to tbrJar First Page Next Page |
Terms of Use Stock Market News! © gutenberg.org.in2025 All Rights reserved.