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Read Ebook: Gli albori della vita Italiana Conferenze tenute a Firenze nel 1890 by Various
Font size: Background color: Text color: Add to tbrJar First Page Next Page Prev PageEbook has 637 lines and 122128 words, and 13 pagesE qui si presenta una prima osservazione, la quale giova anch'essa a spiegarci, perch? mai il Comune fiorentino nacque pi? tardi degli altri. La condizione geografica di Firenze ebbe in ci? una parte grandissima. Se la citt? si fosse trovata sulla pianura, come Lucca e Pisa; se si fosse trovata sulla collina, come Siena, Arezzo, i nobili avrebbero avuto interesse ad entrarvi, perch? i cittadini, che alla nobilt? erano avversi, avrebbero avuto non piccolo vantaggio nell'assalire i castelli nella valle o nella pianura. Ma Firenze essendo invece nella valle, circondata da colline, sulle quali erano moltissimi castelli che l'accerchiavano, i nobili avevano una posizione vantaggiosa, che tornava loro conto mantenere, perch? cos? potevano pi? facilmente minacciare e vincere la cittadinanza. Da questo fatto vennero due conseguenze. La prima fu che il Comune fiorentino, col suo territorio, come dice il Villani, tutto incastellato, stretto cio? da un cerchio di castelli feudali, non poteva facilmente espandersi; e cos? il suo nascere e la sua indipendenza furono da tali condizioni ritardati. La seconda conseguenza fu, che tra i nobili e gli abitanti della Citt?, la maggior parte dei quali erano commercianti o artigiani, nacque un antagonismo molto pi? profondo e duraturo, che non si vide a Pisa, a Siena, a Lucca, in alcun altro dei Comuni italiani. La democrazia e l'aristocrazia si trovarono di fronte, separate in due campi avversi, senza potersi fra loro mai conciliare. Tali sono le condizioni in cui noi ci possiamo immaginare Firenze, prima che il Comune nascesse. E tanto ? vero che i Fiorentini avevano gi? di fatto una indipendenza reale, prima che avessero una indipendenza legale, che noi troviamo nel 1107, nel 1110, nel 1113 tre guerre da essi combattute contro i vicini castelli di Monte Orlando, di Prato, di Monte Cascioli, vincendo i Cadolingi e gli Alberti, conti allora potentissimi. E queste guerre furono condotte nell'interesse commerciale delle Citt?, contro il feudalismo, il che ci riconferma nella opinione, che le forze crescenti della cittadinanza venivano dal commercio e dall'industria, e che gli artigiani dovevano formare la parte principalissima di quella cittadinanza, se tutto si faceva a loro vantaggio. Ma perch? tutti questi fatti non hanno grandi narratori, non hanno molti documenti? Torniamo a ripeterlo, perch? il Comune non era nato, non poteva quindi fare trattati in suo nome; e se combatteva per proprio conto, lo faceva col consenso di Matilde, dalla quale tuttavia dipendeva, dalla quale non era e non voleva essere indipendente, perch? non gli conveniva. Quando la contessa Matilde scompar? dalla scena del mondo, vi fu nell'Italia centrale un periodo di estrema confusione. Essa aveva lasciata erede di tutti i suoi beni la Chiesa, la quale perci? voleva assumere il governo della Toscana. Ma il Margraviato apparteneva all'Impero che voleva riprenderlo. La Contessa poteva disporre dei soli beni allodiali, non dei feudali. Distinguere gli uni dagli altri non era facile, spesso non era possibile; e cos? ne nacque una crisi economico-sociale-politica. Il Margraviato ne and? in fascio, e le sue varie parti si separarono, per mancanza di un'autorit? superiore che potesse esercitare il potere. In mezzo a questo stato di cose, Firenze si trov? libera e indipendente, senza quasi avvedersene, senza quasi sentire il bisogno di avere un nuovo governo. La societ? era gi? tutta quanta in mano delle associazioni; di un governo centrale v'era appena bisogno. Quelle famiglie che avevano comandato il presidio, che avevano amministrato la giustizia in nome di Matilde, continuarono a farlo in nome del popolo, e furono i Consoli del Comune. Quale ? il primo segno di questa indipendenza? La ripresa della guerra contro il Castello di Monte Cascioli, che fu demolito e bruciato. Questo fatto ebbe una speciale importanza. Se dunque noi troviamo forme e tradizioni romane, prima che il Comune sia costituito, nella narrazione che descrive la prova del fuoco seguita nel 1068; se troviamo tradizioni e forme romane, quando il Comune si va costituendo, nella leggenda che descrive le sue origini; se troviamo forme e tradizioni romane nel primo cronista che descrive la prima grossa guerra, che fecero i Fiorentini, sempre a difesa del loro commercio, sempre contro i nobili feudali, ci deve esser lecito di concludere, che nelle sue mura stava il sangue romano di fronte agli avanzi delle tradizioni e del sangue germanico, raccolto nei castelli che l'accerchiavano, e che ritardarono la sua indipendenza. Ritardandola, non impedirono per? l'incremento delle sue forze industriali, commerciali, militari, e cos? fu che quando mor? la contessa Matilde, Firenze era gi? di fatto un Comune indipendente, sebbene tal non fosse ancora legalmente. E dopo ci? facilmente capiremo che, quando molti non vogliono in nessun modo persuadersi che la cosa sia cos? semplice, e vanno cercando astruse spiegazioni con grande dottrina, questa assai spesso serve solo a rendere difficili fatti che per s? stessi sarebbero assai facili. Ma qui occorre un'altra osservazione. Se questi concetti sono giusti, se veramente il Comune fiorentino ? nato in tal modo, dovrebbe avverarsi quello che noi accennavamo sin dal principio, cio? che qualche luce essi dovrebbero gettare sugli avvenimenti posteriori, e ci? varrebbe anche a confermare la verit? di quanto abbiam detto fin qui. Vediamo dunque se gli avvenimenti posteriori confermano le considerazioni finora esposte. Giovanni Villani, il quale affermava che il fatto del Buondelmonti, nel 1215, aveva la prima volta diviso la cittadinanza di Firenze, dimenticava di averci precedentemente detto, che nel 1177 la guerra civile era gi? cominciata per opera dei grandi, cio? degli Uberti, che combatterono sin d'allora il governo consolare. Ci? prova che il fatto del Buondelmonti fu uno di quei tanti episodii, che seguirono spesso in tutti i Comuni del Medio Evo, ma non ebbe una vera importanza politica, perch? non fu causa, ma conseguenza della guerra assai prima incominciata. Noi abbiamo dunque un secondo periodo nella storia di Firenze, il quale ? una lunga serie di guerre e rivoluzioni interne, che portano una serie di trasformazioni sociali e politiche del Comune. Vediamo da una parte i nobili col Podest? alla loro testa, dall'altra il popolo comandato dal suo Capitano. Scopo e fine di questa lotta ? la totale distruzione del partito aristocratico, il che segu? nel 1293 con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, i quali esclusero affatto i Grandi da ogni partecipazione al governo. Tutte queste rivoluzioni hanno di mira uno scopo costante, hanno un'origine comune, si seguono con un ordine determinato. Non ? il caso che domina la storia di Firenze, ? una legge storica, che risulta dai varii elementi, che costituirono la societ? fiorentina nel Medio Evo. Ma, finita che fu la prima serie di rivoluzioni, con gli Ordinamenti di Giano della Bella, non finiva perci? la guerra civile. Come i nobili del contado, demoliti che furono i loro castelli, non scomparvero affatto, ma entrarono dentro la Citt?; cos?, esclusi ora dal governo, non per questo scomparvero affatto, ma s'unirono ad una parte del popolo, cio? ai capi delle principali Arti, e si form? il partito delle Arti maggiori contro le minori, del popolo grasso contro il popolo minuto. Questo rappresentava ora la democrazia gi? avanzata, quello che oggi diremmo il partito radicale: era l'infima plebe, la quale non capiva, perch? essa, che aveva preso parte alle guerre civili contro i nobili, alle battaglie contro i castelli, dovesse rimanere esclusa dal governo. E quindi, se la prima guerra civile era cominciata per escludere i nobili dal governo, la seconda non fu fatta per escluderne il popolo grasso, ma perch? il popolo minuto voleva insieme con esso avervi la sua parte. E come nel 1293 vedemmo l'ultima conseguenza logica del primo periodo, cos? nel 1378, col tumulto dei Ciompi, abbiamo l'ultima conseguenza logica del secondo, ed il popolo minuto sale finalmente anch'esso al governo, rimanendo in continuo contrasto coi ricchi. La plebe sin dal principio eccedette nei suoi trionfi, ed allora comparvero sulla scena i Medici, i quali, appoggiandosi ad essa, con accortezza impareggiabile, s'impadronirono del governo. E cos? la Repubblica, dopo quasi un altro secolo di lotte, finalmente cadde. Questa storia fiorentina, adunque, non ? un mistero, non ? una serie di rivoluzioni sottoposte al caso; essa ? invece chiara come una proposizione geometrica. Le sue rivoluzioni hanno una causa costante; il suo scopo politico ? sempre lo stesso. Dal giorno in cui il Comune ha messo la prima pietra, noi possiamo, se studiamo quali sono gli elementi che lo compongono, determinare logicamente, prevedere sicuramente quali saranno le rivoluzioni, cui esso ander? soggetto. Sotto i Medici noi troviamo che sono scomparse le Consorterie, la cui distruzione era in fatti cominciata sin dal 1293. Troviamo che le Arti ancora esistono, ma hanno perduto ogni importanza politica; vediamo un governo forte, accentrato; una societ? che par quasi una societ? moderna. Una grande uguaglianza civile apparisce per tutto; non pi? classi, n? gruppi separati ed ostili; non titoli di nobilt?; non privilegi di alcuna sorte; dagli ultimi si pu? salire, a forza d'ingegno, ai supremi gradi sociali. Sotto un tale aspetto pu? dirsi che il Comune abbia raggiunto il fine cui aveva sempre mirato, abbia ottenuto un vero trionfo. La storia, o Signori, non ? una filosofia, non ? una predica morale, non fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa vi ripeter? di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, ? l'abnegazione; che ci? che solo pu? rendere l'uomo felice sulla terra, ? il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della nostra esistenza, e dal quale solamente la vita pu? ricevere il suo valore e la sua dignit?, quello ? il momento in cui il carattere morale s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la decadenza diventa allora inevitabile. Certo quando noi guardiamo in Firenze il Duomo, il Palazzo Vecchio e gli altri monumenti che gli stranieri tanto ammirano e tanto studiano, dobbiamo ammirarli anche noi. Ma, sebbene assai pochi vi pensino, non meno ammirabile ? la condizione in cui la Repubblica fiorentina lasci? le campagne della Toscana, non per le amene colline, non per le ricche messi, ma per l'armonia sociale che vi regna, per le condizioni economiche in cui l'antica Repubblica pose il contadino. Nel 1289 i Fiorentini fecero una legge, la quale, con un linguaggio che sembra quello stesso dell'Assemblea Costituente in Francia, dichiarava che la libert? ? sacra, inalienabile, che ? voluta da Dio, ? necessaria alla prosperit? di tutto il popolo, e liberava perci? i contadini da ogni servit?. E sono questi i tempi medesimi, in cui s'iniziava quel contratto agrario che fino ai nostri giorni fu tanto ammirato, che il nobile animo del Sismondi chiamava uno dei grandi monumenti della sapienza civile degl'Italiani, che gli economisti moderni dichiarano uno dei mezzi pi? efficaci a liberare la societ? moderna dal pericolo sociale d'un conflitto di classi, da cui essa sembra minacciata. E questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della societ? spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Cos? si chiamarono allora, e cos? si chiamano oggi. E allora come ora, o Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che ? tanta parte della prosperit? nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come noi, e crescere con la sua la nostra felicit?. E questo fu fatto dai Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto sentimento morale. Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze, soleva dire che i Fiorentini non avevano mai cos? bene impiegato il loro denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiam? nella Citt? tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono mai cos? profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperit? economica, ma io credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperit? intellettuale e morale. Forse anzi in ci? sta una non ultima ragione del perch? tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia inutile il non avere lo sguardo turbato dalle ingiuste sofferenze di coloro che onestamente lavorano. Credo invece, che giovi assai agli artisti ed ai poeti, i quali si sollevano nel regno dell'arte; giovi, affinch? le creazioni della loro fantasia serbino tutta la sacra purit? dell'ideale, il serbare, con la mente serena, una coscienza non tormentata da rimorsi. -- Ma allora quelle immagini divine dei poeti, dei pittori del Trecento e del Quattrocento, di cui parlammo, non ci appariranno pi? come l'Angelo di Dante nella bolgia infernale, che traversa sdegnoso, frettoloso la palude Stige. Esse non vengono di fuori, sono nate nella coscienza stessa di questo popolo, nei giorni in cui difendeva la libert? e rispettava la giustizia, sono come la sostanza stessa della sua anima. E cos?, o Signori, voi vedete, io spero, come lo studio delle origini possa gettare una qualche luce o rischiarare anche i fatti della storia posteriore del Comune e della societ? italiana. VENEZIA E LE REPUBBLICHE MARINARE P. G. MOLMENTI E dove a chi potrei oggi meglio parlare di Venezia, se non a voi qui in Firenze, in Firenze cos? legata alla citt? delle lagune anche da recenti prove d'affetto? Voi la conoscete, ma ? sempre curioso il ricordarla la storia di codeste genti veneziane, che non aspettano la loro fortuna, come limosina dal caso, ma la conquistano colla prodezza e l'accorgimento: si fanno innanzi tra la larva d'impero dei Cesari bizantini e i rinnovantisi invasori stranieri, divengono signori di grandi traffichi e conquistatori di vaste provincie, fiaccano l'orgoglio dei maggiorenti e abbassano l'insolenza del popolo, piantano il vessillo repubblicano sulle torri del palazzo imperiale di Bisanzio, divengono i guardiani d'Italia contro gl'infedeli della religione e gli infedeli della libert?; non s'abbassano mai n? anche quando li stringe da presso il nemico: passano, a traverso la storia, eroi talvolta, talvolta uomini pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichit? alla romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accenner?, o signori, alle umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare d'Italia se non per ci? che con Venezia ha rapporto. Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perch? uno degli aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si riferisce ad Altino, citt? prospera per commercio, magnifica per edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenit? delle ville, degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale: Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano. Eraclea, popolata essa pure da Aquileiesi e dal fiore degli Opitergini, fu sede del governo. I profughi di Asolo e di Feltre ripararono a Jesolo, pi? tardi chiamata Equilio, per le razze dei cavalli, che vi si allevavano. Gli scampati dalla distruzione di Padova si ridussero a Matemauco, l'odierno Malamocco. Il popolo di Concordia cerc? riparo nell'isola, dalle capre che vi condussero i pastori, chiamata Oaprule ed oggi Caorle. Vissero tutte la fulgida vita della giocondit? e della ricchezza. Ora, dove esse sorgevano, si ? fatto un triste deserto. Qua e l? qualche rudero; eco romita dei vecchi secoli. Vi regnano lo squallore e la malaria. Esiste ancora in tutta la suprema bellezza dell'arte e delle memorie, Rivoalto, la pi? modesta di tutte le isole, che a poco a poco unita ad Olivolo, indi a Luprio e finalmente alle Gemine e a Dorsoduro, form? l'odierna Venezia. Provveduti di navilio, arditi sfidano le tempeste del mare e le correnti dei fiumi: erigono case, come nidi d'uccelli marini; collegano la terra con fascine e dighe: ammucchiano sabbia per rompere le onde infuriate: convivono in eguaglianza poveri e ricchi; non invidia, non viz? li macchiano; ogni loro emulazione sta nel lavoro delle saline, da cui nasce il frutto al quale ogni produzione ? soggetta e che dell'oro ? assai pi? prezioso. Nessuna descrizione pi? attraente, quantunque il ministro di Teodorico fosse disposto ad abbellire il quadro, oltre che dall'indole sua, anche dal bisogno che aveva il suo sovrano di trasportar vettovaglie coi navigli di quei Veneti, i quali del resto riconoscevano nei conquistatori goti l'alto dominio sulle isole. Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo squallore dei bassi tempi alla luce di un'?ra novella, si rianima. Noi la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare negli esuli il rimpianto e le memorie delle citt? disparite, gli splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; l?, il furiar delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e in esso cercarono la gloria. -- Lotta e gloria -- ecco il grido anche dei secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura delle difficolt? e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa passione li agita, li comanda, li possiede. Alla vita frugale e laboriosa seguono pi? prospere condizioni. S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni pi? breve isoletta ? abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni e di lotte. Nella Venezia continentale, da prima si agitano guerre fra Ostrogoti e Bizantini, fra Bizantini e Franchi e Longobardi: poi lotte dei patriarchi di Aquileia e Grado e dei vescovi veneti ora coi Longobardi, or coi Bizantini, e controversie fra il papa e i patriarchi e i vescovi. In breve la pace incominci? a turbarsi anche nella Venezia marittima. Il primo Doge, Paoluccio Anafesto, con l'assenso o almeno senza opposizione della Corte greca, fu, nel 697, in un'assemblea del clero, dei tribuni e dei pi? notabili cittadini, eletto in Eraclea. Paoluccio strinse coi vicini Longobardi un patto, il primo, di cui si abbia memoria nelle storie veneziane, che determin? i confini dei due Stati e le ragioni scambievoli dei commerci. In Eraclea, la vita ci si presenta assai diversa da quella descritta con idillica poesia da Cassiodoro. Abbiamo accennato come le varie isole dell'estuario fossero asilo agli abitanti delle desolate citt? di Altino, di Aquileia, di Padova, di Oderzo, di Concordia, di Vicenza. Ma una buona parte di quei fuggitivi s'erano riparati in luoghi, dipendenti anche prima del loro municipio, come Grado, ad esempio, che aveva fatto parte della dizione aquileiese: altri invece erano venuti ad occupar terre, sulle quali i padri loro non aveano mai avuto alcun diritto. Nei primi tempi, la sventura comune non avea lasciato luogo a discutere i diritti di ciascheduno, e poveri e ricchi, come dice Cassiodoro, conviveano col? in eguaglianza. Ma quando tacque il timore dei barbari, sorsero gelosie e contrasti di elementi diversi, tendenti a soverchiarsi a vicenda. Le ire interne, rinfocolate ora dai Greci, ora dai vicini dominatori della terraferma, diedero origine alle due parti veneto-greca e veneto-italica. Di qui torbidi mutamenti di governo. Non pi? il doge, ma l'annuo governo dei maestri dei militi. Dopo poco si ritorn? ai dogi e per togliere ogni gelosia si trasfer? la capitale a Malamocco. Alle rivalit? dei maggiorenti, alle gare delle due opposte fazioni, s'aggiungeano le discordie e le vendette del popolo, il quale, specie quando il doge tentava rendere dinastico il potere vitalizio, associandosi quale il figlio, quale il fratello, si ribellava, uccideva, incendiava. ? un fiero delirar di battaglie e di stragi. Nel 717, Eraclea ? assalita e messa a fuoco dagli abitanti di Equilio, che danno morte al doge Anafesto e a' suoi fidi. Nel 737 il doge Orso ? ucciso a furore di popolo; nel 741, il maestro dei militi Giovanni Fabriciaco ? deposto e abbacinato; nel 755, Galla si ribella al doge Diodato, lo imprigiona, lo accieca, e usurpa il ducato per poco pi? d'un anno, trascorso il quale, il popolo insorge contro Galla e gli appresta la stessa sorte, ch'egli avea procurata all'infelice antecessore. Nel 764, i nobili macchinano le fila di una congiura, rompono in furibondo partito, traboccan di seggio il doge Monegario e gli strappano gli occhi. Nel 801, circa, il doge Giovanni Galbaio, fautore dei Bizantini, manda il figlio a Grado, con una divisione della flotta, per assassinarvi quel Patriarca, che inchinava invece ai Franchi. Il figlio di Galbaio prende d'assalto la citt?, imprigiona il Patriarca e lo fa precipitare dalla torre pi? alta del Castello. Ma, dopo tre anni, il doge Galbaio e il figlio Maurizio debbono fuggir da Venezia per non cader vittime di una congiura, ordita dal nipote dell'ucciso patriarca di Grado. Il partito franco riacquista allora vigore ed ? eletto doge Obelerio. Cos? che non errava il Machiavelli affermando Venezia, forse pi? d'ogni altro comune italiano dell'et? di mezzo, aver provato il furore delle fazioni. Codeste terribili agitazioni doveano metter capo all'invasione straniera. Ma Venezia, destinata ad accogliere le fatidiche memorie del popolo italiano, esc? salva dalle turbolenze, che ne comprometteano la libert? e l'esistenza. Quella stessa incomposta ardenza dovea, per fatalit? storica, mettere capo a leggi di moralit? e di giustizia; quelle lotte erano pur segnale di molta ed esuberante vita, e per questa via si dovea compire la legge del progresso veneziano. Quando invece sull'alba della vita popolare il dispotismo di un tiranno mette il suo volere in luogo della libert? popolana, la quale deve manifestarsi con tutti i suoi errori e tutti i suoi eccessi, gitta i semi di rivoluzioni, che scoppieranno pi? tardi e lascieranno turbamenti perenni. Cos? nella vita dell'uomo: alle giovinezze agitate succede la seria virilit?, laddove all'et? matura sono riservate le follie, che la giovent? non commise. La vita non soffre violazioni. Della vittoria su Pipino manca la certezza storica: certo ? che il giovane re, disperando di soggiogare i Veneti nel sicuro asilo di Rialto, fu costretto a ritirarsi. Da questo momento cessa nei Franchi ogni idea di conquista su Venezia. Nel definitivo accomodamento fra Carlo e l'imperatore d'Oriente, nei preliminari della pace di Aquisgrana dell'810 e nella pace definitiva dell'812, Carlo rinunzia esplicitamente ad ogni pretensione sulle isole della laguna, riconosciuta come provincia dell'Impero d'Oriente. Col trasferire la sede del governo in Rialto non si era voluto soltanto provvedere alla sicurezza dello Stato, ma s'era anche obbedito all'alto concetto di raccogliere e fondere in luogo senza anteriore importanza, gli elementi migliori di varia origine, dispersi per l'estuario. La prima capitale Eraclea avea rappresentato il predominio greco, poi Malamocco la tendenza verso i Franchi. Rialto significava l'indipendenza, la patria libera da ogni influsso straniero. E si sent? fin dalle prime che la nuova patria era stabile e sicura. Bisanzio, ? vero, esercitava ancora una azione su Venezia: i dogi cercavano sempre a quella corte dignit? e uffiz?, troppe erano ancora le relazioni scambievoli, troppi gl'interessi della vita veneziana, maturata al caldo sole d'Oriente. Ma non era pi? che un'azione di nome. Che poteva aver di comune, quale autorit? esercitare un Impero, nato nella mollezza, fra le ambizioni delle donne e le basse adulazioni dei cortigiani, fra le lusinghe e le menzogne, e volgente alla fine, svigorito dalla decrepitezza, con un popolo fiorente di giovent?, ricco di giovanile baldanza? La vigor?a e la giovent? non furono contaminate dalla vecchiezza e dal vizio. La leggenda serv? mirabilmente a quella specie di misticismo ufficiale, che, come ben fu detto, nessuno Stato ebbe in grado maggiore di Venezia. Tutto ci? che si riferisce all'innalzamento del tempio, dove, secondo l'angelica previsione, dovea trovar riposo il corpo dell'Evangelista, ? come avvolto da un'aura di misteriosa poesia. Strano il modo con cui da Alessandria furono trasportati nelle isole realtine i resti di san Marco. Due mercanti, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, nell'828 approdavano ad Alessandria, dove i cristiani erano perseguitati dai musulmani, che spogliavano di quanto contenevano di pi? prezioso le chiese, per adornarne moschee. Anche il tempio dove era la tomba di san Marco dovea essere distrutto. I due mercanti veneziani poterono ottenere dai sacerdoti greci quelle sacre reliquie, e per sottrarle alle indagini dei gabellieri musulmani, le coprirono di carni porcine, avute in orrore dagli islamiti. Recata quindi la salma sulla nave, spiegarono al vento le vele, approdarono alla patria, fra le festose accoglienze del doge e del popolo. La santa reliquia fu riposta in palazzo ducale fin che si fondasse il tempio, in omaggio del nuovo protettore. Sotto Giovanni Partecipazio, nella chiesa, ridotta a buon termine e adornata di colonne e marmi finissimi, spoglie di vittorie sui Saraceni, si trasport? il corpo dell'Evangelista, il cui nome fu invocato nelle sventure, nelle gioie, nelle battaglie, nelle vittorie. E Venezia, che diverr? una delle prime potenze denaresche d'Europa, quasi a bene augurare de' suoi commerci, stamper? il busto nimbato di san Marco sulle sue monete; e l'animale simbolico dell'Evangelista diverr? ben presto il segnacolo glorioso della repubblica, e nell'edifizio, sacro e inviolato sepolcro del Santo, si svolger? una serie di avvenimenti, nei quali si riassume quanto v'ha di pi? glorioso nella veneta storia. Se Venezia potea dirsi indipendente dall'Impero bizantino, non avea, d'altra parte, pi? a temere le forti razze del settentrione. Colla potenza Carolingia, minacciosa un d? per la libert? veneziana, la giovane repubblica potea ora trattare da eguale ad eguale. Lodovico II, nell'855, si reca insieme con l'imperatrice, insino a Brondolo, presso Venezia, per onorar di una visita il doge Pietro Tradonico, del quale tiene al fonte battesimale un nipote. Ma, fra tanta prosperit?, le interne discordie non quetavano, anzi, tratto tratto, prorompevano tremende, specie fra i maggiorenti. Le famiglie pi? illustri vengono fra loro al sangue: i Giustiniani, i Basegi, i Polani da una parte; gli Istoili, i Barbolani, i Selvo dall'altra. Lo stesso doge Pietro Tradonico ? trucidato, non gi? in tumulto di popolo, ma per mano di congiurati, i cui nomi sono fra i pi? illustri di Venezia: Gradenigo, Candiano, Calabrisino, Faliero. N? men sinistra quella luce di rivolte civili, che circonda la bieca figura di Pietro Candiano IV, prima esigliato per l'indole fiera e turbolenta, poi con voltabile giudizio, richiamato in patria ed eletto al dogato. Ma presto, lasciato veder l'animo suo, prorompente ad ogni maniera di prepotenza, fu fatto nuovamente segno alle ire di congiurati, che lo assalirono nel palazzo dove trovaron fiera resistenza nelle soldatesche straniere, messe a guardia del doge. Allora appiccarono il fuoco alle case vicine. Quando le fiamme minacciavano al palazzo ducale, Candiano fugg? per l'atrio della chiesa di San Marco, insieme col figlioletto ancora lattante. I congiurati lo scoprirono, s'avventarono su lui, implorante la vita, almeno, pel figlio. Risposero col sangue. I corpi degli uccisi, lasciati per ludibrio insepolti, furono raccolti e seppelliti da un Giovanni Gradenigo, uomo pio, aborrente da quei furori. Altre contese sanguinose sorgono fra le due famiglie dei Morosini e dei Caloprini. Un Morosini, mentre esce di chiesa, ? trafitto da un Caloprino. I servi, percossi d'orrore, non pensano a brandire le armi, ma raccolgono il ferito e lo trasportano in un monastero, dove spira fra le lagrime e i propositi di vendetta dei parenti col? riparati. I Caloprini fuggono, chiedono asilo alla corte di Ottone II, che coglie tale pretesto per assediare Venezia da ogni parte, perch? non le giungessero vettovaglie e dovesse arrendersi. Venezia resiste e nel 983 si viene alla pace di Verona. Pi? tardi, i Caloprini per intercessione dell'imperatrice Adelaide, ottengono il perdono e il ritorno in patria. Ma gli od? non sono spenti nei Morosini. Una sera, seduti in una barca, tornavano dal palazzo ducale alle loro case, tre giovani Caloprini, allorch?, d'improvviso, assaliti dai Morosini son trucidati con tal furore da farne schizzare il sangue sulle rive vicine. I corpi sanguinosi dei trafitti furono portati da un servitore fedele alla povera madre e alle vedove mogli. Strano tempo e strane antitesi! L'odio a canto all'amore, la ferocia alla mitezza; e sconsigliati impeti di plebe a canto a sottili e accorti provvedimenti; e qui levarsi su nel limpido azzurro le bianche chiese e l? intorbidar l'aria il fumo degli incendi vendicatori; e dotar monasteri dopo esser corsi alla rapina; e appendere a pi? degli altari le spoglie dei nemici; e innalzar preci dopo uccisioni e stragi. Ma sol che lo straniero minacciasse ed offendesse la patria, le discordie tacevano e tutti insieme i cittadini correvano alle armi, animati da un volere comune. In questo periodo delle origini, la citt? ha un aspetto singolarissimo. Questa maravigliosa zattera di sabbia e di fango ? indefinibilmente strana per forma e non rassomiglia ad alcun altro paese. Il Sannazaro, nel tempo in cui Venezia, un po' invecchiata, incominciava a porgere ascolto benigno alle bugie dei poeti, scrisse un epigramma, che gli frutt? cento scudi per ciascun verso e nel quale, comparando Roma a Venezia, conchiude col dire che quella fu fabbricata dagli uomini, questa dagli dei. Nulla di pi? poeticamente menzognero. Venezia fu fatta dai Veneziani. Il nume indigete erano la forza, l'operosit?, il vigore, il coraggio, l'ardore di quei profughi intrepidi. Per voi, ad esempio, o signori, la patria ? un dono, uno splendido dono di Dio -- pei Veneziani ? l'opera dell'industria umana. Entro questo vostro divino anfiteatro di colline, rigate dai canali freddi e molli, fra la magnifica pompa della verzura e dei fiori, palpita una dolce vita, dove hanno sorrisi tutte le cose, viventi nella felicit? di un'armonia serena, armonia dei colori e della luce, del suolo e dello spazio. Qui l'opera dell'uomo ? un sublime commento all'opera della natura, e l'arte temperata al sentimento dell'aere circostante, assume una elegante semplicit? e compostezza di linee, una nobilt? morale di forme che riposa l'animo e contenta l'occhio. La cupola del Brunelleschi, il campanile, la loggia dei Lanzi, Orsanmichele sono come il compimento di Bellosguardo, di Fiesole, di Monte Oliveto, di San Miniato, e le linee del paesaggio con quelle degli edifiz? si fondono nel comune accordo. Venezia invece, eretta sur un labirinto di secche e di paludi, sovra un piano di acque e di alghe, dovea rispecchiar nell'aspetto, fin dall'origine sua, i capricci imaginosi dell'uomo, non gi? l'impero della natura esteriore. Guardate San Marco, il prodigio dell'architettura veneziana! ? una sublime bizzarria. I rosoni, i rabeschi, gli intrecci, i pinacoli slanciantisi al cielo, presentano l'aspetto di una lussureggiante vegetazione di pietra. Le arcate a trifoglio, le aguglie traforate, l'innesto dell'arco acuto sul bizantino, tutta l'opera fine, con la sua ricca veste di sculture e di cesellature, colle sue armonie e co' suoi disaccordi, sembra una vasta sinfonia nel marmo. Nessuna licenza ? vietata; simboli di tristezza macilente e di florida giovinezza, figure misticamente rigide e mondanamente voluttuose, vergini e martiri assorti in visioni serafiche, e angeli e beati, vivificati da idee terrene, mostri e chimere del paganesimo a canto ai santi del cattolicesimo. -- Tale Venezia. -- Percorrendo il Canal grande, ci passano dinanzi fantastiche architetture bizantine, palazzi di stile arabo-archiacuto simili a trine di marmo, edifici del Rinascimento corretti e severi, moli maestose della decadenza dalle bugne massicce, dalle cornici ponderose. Qui l'architettura non ha tradizioni e, tra gli splendori del cielo e le iridescenze delle acque, cresce mobile, varia, fantastica, come le tinte dei tramonti, come i riflessi delle lagune. Nessuna citt? ? passata per pi? diverse forme. Qui Venezia si trova di fronte ad altre due citt? marittime, che andavano anch'esse crescendo in potenza, e alle quali la fortuna della rivale non poteva non destare sospetti e antagonismi, scoppiati poi in sanguinose discordie. Pisa non era una nuova venuta. I documenti della sua nobilt? risalivano all'antica civilt? etrusca, alla grandezza romana. Risorta dopo l'invasione barbarica, ebbe a combattere i Saraceni. Ma il valore delle armi non si scompagna agli accorti maneggi del commercio e ai provvidi ordinamenti civili. Il dominio della contessa Matilde fu pi? di nome che di fatto e non imped? il libero svolgimento della libert?, fecondatrice di ricchezza e benessere materiale. E quanta fosse la sua floridezza commerciale, provano le parole del monaco Donizone, il quale, nel suo ascetico fanatismo, vede i navigatori pisani trasformati in mostri marini e la citt? insozzata da male generazioni di Pagani, Turchi, Libici, Parti, e le sue spiaggie corse dai Caldei. Dopo aver combattuto contro la vicina Lucca, Pisa combatt? pel possesso della Sardegna contro Genova. Difficili i primi passi di Genova, umili le origini: trafficare coi porti vicini, combattere i predatori saraceni e normanni. A poco a poco, a nuovi commerci nuovi lidi. Fin dal 958, essa gode della sua libert?, non funestata mai da capricci superbi di conti, di marchesi, di duchi, ai quali tutti il trattato di Berengario II e di Adalberto vietano di porre piede nella citt?. Prosperano le compagnie cittadine belligere e trafficanti. Da prima, insieme coi Pisani, Genova strappa ai Mori la Sardegna, ma ben presto le armi consociate diventano fratricide, e la guerra fra le due citt? dura sessant'anni. Ad accrescere la ricchezza e le rivalit? delle citt? marinare d'Italia giungono le crociate. Ma, siamo giusti, ci? che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare pi? fieri i dissid? fra Pisa, Genova e Venezia. Add to tbrJar First Page Next Page Prev Page |
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