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Read Ebook: Storia d'Italia dal 1789 al 1814 tomo VI by Botta Carlo
Font size: Background color: Text color: Add to tbrJar First Page Next Page Prev PageEbook has 456 lines and 98380 words, and 10 pagesNapoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile, che, stantech? il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantech? l'interesse dei due reami, e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantech? la donazione di Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata fatta a benefizio della cristianit?, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il d? undici maggio prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicer? amplissime facolt? per esecuzione del decreto. Gi? innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorit? sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorit? di governatore il generale Lemarrois, il quale non cos? tosto vi fu giunto, che cass? dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostitu? quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice. Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il d? venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni gi? si sequestrassero a chi non avesse obbedito il d? cinque giugno. Questa deliberazione tanto pi? era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorit? temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poich? il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire n? l'uno n? l'altro ufficio. Taccio la crudelt? di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. N? so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove pi? le pare e piace, e che chi ? nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente. N? solo la violenza del voler torre i servitori al papa si us? contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il d? quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ci? fare niuna legittima facolt? avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravit? al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perch? obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclam? il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono. Eugenio vicer? con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato. Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedelt? all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perci? aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedelt? e fellon?a verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altres? di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessit?, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volont? essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perch? non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi. La volont? del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perch? dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. N? non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei pi? la volont? del pontefice: e per? gi? il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicer?, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava n? di leggi, n? di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzich? pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicit? volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasci? il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ci? ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene. Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volont? inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire s? gran contesa: che per? senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorit? superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e piena la sua potest? spirituale; che a lui solo spettava la facolt? di definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe attentato scismatico e distruttivo dell'unit? cattolica, il contraddire pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facolt? loro, la quiete dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente usare. Cos? era nelle quattro province un conflitto tra armi ed opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra la coscienza e gl'interessi non sapevano pi? dove volgersi: prigioni a chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione delle Marche, una volta s? prospere e s? felici, ora cadute ed infelici. Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece, con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranit?: ma nel restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilit?, mentre era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamit? innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli. Pubblicava Pio una solenne protesta: < < Cos? Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Cos? ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San Vincenzo per accarezzarlo. LIBRO VIGESIMOQUARTO SOMMARIO Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo degli Austriaci, il principe Eugenio, vicer?, generalissimo dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani. L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualit? di Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra. L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta, poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda. Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi. Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamit?. L'Austria depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le disgrazie presenti per la speranza del futuro. N? solo la spaventavano i patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le profferte segrete, poich? Napoleone le esibiva ingrandimento nella distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di riscuotersi; per? risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la sua cupidit?, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquit? commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare, con fare che le compagn?e d'ordinanza non solo avessero i numeri interi, ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si doleva Napoleone di s? romorosi apparecchj, affermando, non pretendere coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco, l'avere conservato la monarch?a Austriaca, quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servit? della Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servit?. Solo le mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la us?. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia, tostoch? i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Era questo moto di grave momento s? per la natura bellicosa della nazione, e s? per tener aperte le strade tra i due eserciti di Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocch? vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento ? sempre l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria, delle dure condizioni presenti, del futuro giogo pi? duro ancora ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, n? mai pi? promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai ella aveva fatto s? formidabile preparazione. A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurt? della quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessit? d'oltre i Pirenei. Ci? non di meno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato, e pi? pronto a cimentarsi. Pens? Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra Germanica, perch? vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome, fuorch? il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante, al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino. L'arciduca Carlo mand? dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il d? nove aprile, al medesimo modo intim? la guerra a Broussier, che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio vicer?, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra: poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente, del quale avevano gi? dato con le opere s? vere testimonianze: confidare che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed indulgente affetto. Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli movimenti: < A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acci? non avessero a disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che d'ignominiosa e perpetua servit?. Ma le sue esortazioni non partorirono effetti d'importanza, perch? coloro che avevano le armi in mano, parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bens? la signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, n? che la vittoria di lei fosse per essere la libert? d'Italia pareva lor chiaro: tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. N? appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro, la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo. Add? dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca, varcata la sommit? dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non per? senza qualche difficolt? per la resistenza dei Francesi, quello della Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante corredo di artiglier?e e di cavaller?a passava l'Isonzo, e minacciava con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce incontro al ponte di Dignano, perch? quivi Broussier combatt? molto valorosamente. Ma ingrossando vieppi? nelle parti pi? basse gli Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si ripar? per ordine del vicer? sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, and? il principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza, attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, s? quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il principe; poich? sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire. Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo, Broussier a sinistra: le fanter?e e le cavaller?e del regno Italico formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i Tedeschi, correva il d? sedici aprile: destossi una gravissima contesa nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono egregiamente. Pure rest? Palsi in potest? dell'arciduca: e gi? i Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavaller?e, insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliard?a, che pigliando del campo scacci? il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette, che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che gi? manifestamente declinavano: Barbou eziand?o si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma contuttoch? molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la virt? del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale Teste, guerriero molto prode. Durava la battaglia gi? da pi? di sei ore, n? la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre pi? l'arciduca con nuovi ajuti la fronte, costrinse i Napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere, e ucciso loro di molta gente. Pat? molto la cavaller?a di Francia; fu anche danneggiata fortemente la schiera di Broussier, che servendo di retroguardo alle altre mezzo rotte e ritirantisi, ebbe a sostenere tutto l'impeto del nemico vincitore. Se la notte, che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico avrebbero i Francesi e gl'Italiani pruovato qualche pregiudizio molto notabile. Perdettero in questa battaglia di Sacile i Napoleoniani circa due mila cinquecento soldati tra morti, feriti e prigionieri: non mancarono dei Tedeschi pi? di cinquecento. Dopo l'infelice fatto non erano pi? le stanze di Sacile sicure al principe vicer?. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente dai Tedeschi, sempre lenti perseguitatori dei nemici vinti, e perci? perdenti molte buone occasioni, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che gi? stanziavano nelle terre Veronesi, e quelli che sotto Durutte dalla Toscana erano venuti. N? piccola cagione di dare novelli spiriti ai Napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Pass? l'arciduca la Piave, pass? la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco frutto: tent? con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di Venezia; ma non sort? effetto. Si apprestava non ostante ad andar a trovar il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombard?a, dominio antico dei suoi maggiori. Non trov? nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca importanza; si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra del Polesine; e fu per loro in mal punto; perch? Napoleone tornato superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, gli soggett? all'imperio militare, ed alla pena del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo di sangue; gli dessero, per essere immolati, quattro di loro. Per intercessione del vicer?, che tent? di mollificare l'animo dell'imperatore, fu ridotto il numero a due; questi comperarono coll'ultimo supplizio l'indennit? della patria. Intanto l'arciduca Carlo, varcato l'Oeno, aveva occupato la Baviera; e col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei primi principj dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi. Annidavansi negli animi di questo popolo armigero e virtuoso molte male soddisfazioni. Assuefatti da lungo tempo al mansueto dominio della casa d'Austria, molto mal volentieri sopportavano la signor?a dei Bavari, come non consueta, e come, se non per antico costume, almeno per gli esempj freschi, e fors'anche pei comandamenti Napoleonici, dura e soldatesca. S'aggiungeva, che il re di Baviera aveva abolito l'antica constituzione del Tirolo, riducendo la forma politica alla potest? assoluta, anche in materia di tasse. S'accordarono parte segretamente, parte palesemente per secondare con ogni nervo l'impresa dell'antico loro signore. L'Austria gli aveva fomentati, mandando per le montagne di Salisburgo nel Tirolo Jellacich con un corpo di regolari. Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Oeno, e l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi mossi da una sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e diedero addosso alle truppe Bavare e Francesi, che nelle terre loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer, albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna qualit? eminente, dico di quelle alle quali il secolo va preso: bens? era uomo di retta mente, e d'incorrotta virt?. Vissuto sempre nelle solitudini dei Tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti. I Parigini ed i Milanesi spiriti, anche i pi? eminenti, correvano alle lusinghe Napoleoniche, povero albergator di montagna, perseverava Hofer nell'innocente vita. Allignano d'ordinario in questa sorte d'uomini due doti molto notabili, l'amore di Dio, e l'amore della patria: l'uno e l'altro risplendevano in Andrea. Per questo la Tirolese gente aveva in lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comand? richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai veduto n? nella guerra sdegnato, n? nella pace increscioso, contento al servire od al principe, od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide incendj di pacifici tuguri, vide lo strazio e la strage dei suoi; n? per questo cess? dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere sorti avevano dato in sua potest?, fosse messo a morte: anzi i feriti dava in cura alle Tirolesi donne, che e per se, e per rispetto di Hofer gli accomodavano di ogni pi? ospitale servimento. Distruggeva Napoleone le patrie altrui, sdegnoso anche contro gli amici: difendeva Hofer la sua, dolce anche contro coloro, che la chiamavano a distruzione ed a morte. Lascio io volentieri le illustri penne della vile et? nostra lodare i colpevoli fatti dei potenti; ma non mi sar?, credo, negato, ch'io col mio basso ed oscuro stile mi diletti spaziando nel raccontare le generose opere di coloro, ai quali pi? arrise la virt? che la fortuna. Quest'erano le voci di una patria santa ed offesa. Chi con le carabine trapassava da lontano i corpi degli offenditori, chi con sassi sparsamente lanciati gli tempestava, chi con enormi massi strabalzati gli ammaccava. Hofer composto in volto, e torreggiante per l'alta e forte sua persona in mezzo a' suoi, e solo da loro conosciuto per lei, non per l'abito conforme in tutto a quello dei compagni, appariva ora incitante contro gli armati, ora raffrenante verso gl'inermi, uccisore ardentissimo di chi resisteva, difensore magnanimo di chi si arrendeva. Dovunque, e quandunque andava, era una volont? sola per combattere, una volont? sola per cessare, e pi? poteva l'autorit? del suo nome in quegli animi bellicosi, che in soldati ordinatissimi l'uso della disciplina, ed il timore dei soldateschi castighi. I fanciulli fecero da adulti, i vecchi da giovani, le femmine da uomini, gli uomini da eroi; n? mai pi? onorevole e giusta causa fu difesa da pi? unanime e forte consenso. Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria, gratissimo spettacolo a Francesco. I Tirolesi vincitori sulle terre Germaniche, passate le altezze del Brenner, vennero nelle Italiane, e mossero a romore le regioni superiori a Trento. Propagavasi il romore da valle in valle, da monte in monte, e la Trentina citt? stessa era in pericolo. Certo era, che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la massa Tirolese sarebbe calata a fargli spalla; il che avrebbe partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: quest'era il disegno dei generali Austriaci. L'imperatore Francesco, s? per ajutare la caldezza di questo moto, e s? per dimostrare che non aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra i primi dell'et? nostra, acciocch? nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava altres?, come abbiam notato, un corpo di regolari usi alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore del paese. Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparirono, sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gl'imperiali a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni d'allegrezza che i popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria, le artiglier?e, e le archibuser?e tiravano a festa: i vincitori popoli applaudivano: abbracciavano, s'abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le pi? gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo. Qui finirono le allegrezze dell'Austria; poich? nel colmo pi? alto delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale giunto sulle terre Germaniche, e recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre grossissime battaglie a Taun, a Abensberga, a Ecmul. Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del Danubio, e rest? aperta la strada sulla destra ai Napoleoniani per Vienna. Produssero anche le rotte dell'arciduca un altro importante effetto, e questo fu, che oltrandosi Napoleone alla volta di Vienna, fu forza all'arciduca Giovanni il tirarsi indietro dall'Italia; affinch? non gli fosse impedita la facolt? di ritornarsene in Austria, e perci? non solo l'Italia si perdeva per lui, ma ancora il Tirolo. Cos? per le vittorie acquistate dall'imperator dei Francesi tra Augusta e Ratisbona si cambi? la condizione della guerra. Chi aveva assaltato, era costretto a difendersi; chi era stato assaltato, aveva acquistato facolt? di assaltare; l'Italia si perdeva per l'Austria. Vienna pericolava, e niuna speranza restava a chi aveva mosso la guerra, che quelle dell'Ungher?a, della Moravia e della Boemia. Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del fratello, s'accorse, e n'ebbe anche comandamento da Vienna, che quello non era pi? tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero accorrere in ajuto della parte pi? vitale della monarch?a. Ordinava adunque il suo esercito, che gi? era trascorso oltre Vicenza, alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti per poter condurre in salvo le artiglier?e, le munizioni e le bagaglie; opera difficile e pericolosa, con un nemico a fronte tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo il principe. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte, distendendosi colla destra sino al ponte di Priuli, stato a bella posta arso dall'arciduca, e colla sinistra a Rocca di Strada, sulla via che porta a Conegliano. Numerose artiglier?e rinforzavano la fronte che occupava le vicine eminenze in faccia al fiume; i luoghi bassi erano assicurati da alcune torme di cavalli. S'apprestavano i Francesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che ? il principale. Non ostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero coll'artiglier?e poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo dell'intento. Poi pass? il vicer?, sopra e sotto a Lovadina, con la maggior parte dell'esercito. Ordin? tostamente i soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle, e cariche continue di cavaller?a l'infestavano. Pareggiossi la battaglia, che continuava con grandissimo furore da ambe le parti; perch? i Francesi volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar i Francesi nel fiume. Non risparmiavano n? il principe n? l'arciduca, in questa terribile mischia, a fatica od a pericolo, ora come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte Tedesca. Diedero dentro i Francesi, Abb? a destra, Broussier in mezzo, Lamarque a sinistra: secondavangli Pully, Grouchy, Giflenga. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva a favor del principe. Restava a superarsi il molino della Capanna, dove i Tedeschi ostinatamente si difendevano. Lamarque ajutato da Durutte, superati velocemente i fossi, e caricando con le bajonette, s'impadroniva finalmente di quel forte sito; il che fece del tutto sopravvanzare le sorti di Francia. Si ritirarono gli Austriaci, non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi pressando vieppi? il nemico, cercarono salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi: tra morti, feriti e prigionieri, i perduti sommarono circa a diecimila. Morirono fra gli altri, o vennero in potest? del vincitore, i generali Wolskell, Risner e Hager. Perdettero quindici cannoni, trenta cassoni, molte munizioni e bagaglie. Dei Napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tremila. Principal onore in questo fatto riportarono dalla parte dei Francesi, oltre il principe, Dessaix e Pully: da quella dei Tedeschi, oltre l'arciduca, Wolskell, che fin? poco dopo per le ferite l'ultimo d? della sua vita con molto rincrescimento de' suoi, perch? era veramente valoroso, e perito capitano di guerra. Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Pass? il Francese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando i Napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano l'assedio d'Osopo e di Palmanova. Divise il vicer? i suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'intento era di sospingere con quella, occupando la Carintia e la Stiria, il nemico sino ai recessi dell'Ungher?a, e di congiungersi in tal modo coi Napoleoniani di Germania; con questa di accennare Lubiana, e di cooperare con Marmont, che a gran passi si accostava venendo dalla Dalmazia. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine, che il capitano di Francia si era proposto; conciossiach? Dessaix e Seras prendendo continuamente dei monti, e cacciandosi avanti per le valli di Ponteba, di Pradele, della Fella, e della Dogna i Tedeschi, si avvicinavano al sommo giogo, che disparte le acque del Mediterraneo da quelle del mar Nero. Incontrarono un primo intoppo nei forti di Malborghetto e di Pradele. Tent? Seras di corrompere con danari il comandante di Malborghetto. Ricus? il Tedesco contrattazione tanto abbominevole: anzi combattendo valorosamente, e confortando con gravi e virili parole i compagni alla difesa del forte, ed alla salute della patria, vi fin? una onorata vita con una gloriosa morte. Duolmi di non aver conosciuto il nome di questo virtuoso Austriaco, poich? mi sarebbe stato caro il mandarlo ai posteri in queste mie storie. Ottenevano finalmente i Napoleoniani i due forti: superava il vicer? il passo di Tarvisio, ed entrava vincitore nella Carintia, alla volta di Judenburgo di Stiria incamminandosi. Jellacich cacciato dal Tirolo per le armi del maresciallo Lefevre, mandatovi da Napoleone dopo le vittorie di Ratisbona, perd? quasi tutti i suoi a San Michele di Stiria. Seras, passati i monti di Someringa, ed arrivato a Scottvien, si congiungeva con le prime scolte dell'esercito Germanico. Il giorno quattordici di giugno, anniversario della vittoria di Marengo, vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Giavarino una grossissima battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del Danubio in ajuto del suo fratello Carlo. Fu questa battaglia bene, e con arte egregia combattuta dal vicer?. N? io voglio defraudare dalla dovuta laude l'arciduca, che in mezzo a tanto tumulto, a tanti spaventi, a tanto precipizio dello cose Austriache, conserv? la mente immota, e le schiere ordinate. Combatt? coi retroguardi valorosamente, tenne rannodati gli antiguardi, e dopo tante battaglie, ed una ritirata di tanto spazio, risorse pi? potente di prima nei campi di Giavarino, e se non fosse stata la prestezza del vicer?, avrebbe forse cambiato da tristi in liete le sorti del fratello augusto. Piacemi in questo luogo dire, di Eugenio e di Giovanni favellando, che giovani ambidue, se furono d'et? pari, furono anche di valore; ma Giovanni pi? modesto per la natura della casa, Eugenio pi? borioso per gli sproni del padre, degno l'uno di difendere la propria patria, non degno l'altro di distruggere le patrie d'altrui. Il d? sei di luglio periva la mole Austriaca nei campi di Vagria. Quivi fu prostrato l'arciduca Carlo: Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarch?a. Si trov? facilmente forma di concordia per la depressione d'una delle parti: consent? l'imperatore Francesco a condizioni durissime di pace. Consent? anche, prevalendo in lui ad ogni altro rispetto la salute dello stato, a quello che era pi? duro ancora che tutte le altre condizioni, dico al congiungere la propria figliuola Maria Luisa in matrimonio a colui, che era la ruina della sua casa, e che principiante e durante la guerra, l'aveva chiamato coi nomi pi? vituperosi. Il d? quattordici ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento delle cose comuni, dal signor principe di Champagny per parte di Napoleone e dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di pace. Cedeva l'imperatore Francesco all'imperator Napoleone, oltre molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e la citt? di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia, con tutti i paesi situati sulla riva destra della Sava, dal punto in cui questo fiume esce dalla Carniola, fin dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume, ed il littorale Ungherese, l'Istria Austriaca col distretto di Castua, Picino, Buccari, Buccarizza, Portore, Segua, e le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire di limite fra i due stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione coll'Inghilterra. Napoleone sempre intento a torre la riputazione a' suoi amici per tor loro poscia lo stato, fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperatore Alessandro di Russia, che era stato, contro ogni ragione, oziosamente riguardando il processo di questa guerra, nella parte pi? orientale dell'antica Galizia un territorio, che contenesse quattrocento mila anime, non inclusa per? la citt? di Brodi; il quale capitolo accett? Alessandro, bench? fosse spoglia di un amico, che ne ricevette grandissima molestia. Di questa stipulazione non merita riprensione l'Austria, siccome quella che vi consent? per forza. Dello sforzatore poi e dell'accettatore, chi abbia meritato maggior biasimo, facilmente il giudicheranno i posteri. Questo fine sortirono la presa d'armi, ed il poderoso apparato di guerra dell'Austria, e questa concordia fu obbligata d'accettare. L'Europa viemaggiormente si confermava in servit? di Napoleone. L'Austria percossa da tanto infortunio quietava per la pace: ma era dolorosa la sua quiete. Oltre la perduta potenza, l'infestava l'insolenza del vincitore, e l'aggravavano le grossissime imposizioni. Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano continuavano a difendere quel sovrano, che gi? deposte le sue, aveva dato molte nobili parti del suo dominio, e loro stessi in potest? del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Pi? volte combattuti dai Francesi, dai Sassoni e dai Bavari, pi? volte batterono, e pi? volte anco battuti, pi? volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti inaccessibili: vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai Napoleoniani; vincitori, trattavano i Napoleoniani umanissimamente; e siccome gente religiosa, vinti, con segni di grandissima divozione pregavano dal cielo miglior fortuna alla patria, vincitori, coi medesimi segni il ringraziavano. E' furono visti, dopo di aver superato con incredibile valore i soldati di Lefevre, e restituito a libert? coloro, che si erano arresi, scorrente ancora il sangue, e presenti i cadaveri dei compatriotti e dei nemici, gettarsi al punto stesso, dato il segno da Hofer, coi ginocchi a terra, ed in tale pietosa attitudine, tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria. Echeggiavano i monti intorno dei divoti ed allegri suoni mandati fuori da religiosi e forti petti. Infine sottentrando continuamente genti fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricoveratisi aspettavano occasione, in cui pi? potesse la virt? che la forza. Il bavaro dominio si restituiva nel Tirolo Tedesco, ced? l'Italiano in possessione del regno Italico. Sul finire del presente anno Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per la patria, tranquillo per se. Ma Napoleone era sitibondo del suo sangue. Perci?, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, gli riusc? di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i Napoleoniani soldati, era la notte dei venzette gennaio dell'ottocento dieci. L'aperse Hofer: veduto che era venuto in forza altrui, con semplicit? e serenit? mirabile: < Acquistata tanta vittoria dell'Austria, e deponendo ogni simulazione, non conobbe pi? freno Napoleone: l'antica cupidigia di Roma gli veniva in mente. Piacquegli per maggiore scorno dell'Austria, che sul principiar della guerra aveva favellato di liberare e restituire il papa, decretare il d? diciassette maggio in Vienna stessa queste cose: considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi, gliene ced? loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi l'unione delle due potest? spirituale e temporale era stata, ed ancora era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli proposto a conciliazione della sicurt? de' suoi soldati, della quiete e della felicit? de' suoi popoli, della dignit? e della integrit? del suo impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la citt? di Roma prima sede della cristianit?, e tanto piena d'illustri memorie, fosse citt? imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali; che i segni della Romana grandezza, e che ancora in pi? sussistevano, a spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni carico e prestanza; che le propriet? e palazzi del santo padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione o visita, ed oltre a questo godessero d'immunit? speciali; che finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo giorno dell'ottocentodieci. N? mettendo tempo in mezzo, chiamava il giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo, e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino. A questo modo veniva Roma in potest? immediata di Napoleone, ed i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio temporale. Ad atto cos? grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava: < Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della citt? di Roma. Fulmin? altres? l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati s? secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo. Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del Quirinale, acciocch? non si potesse pervenire nelle interne stanze sino alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio. Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ci? che avessero a farsi. Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni, quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando trov? duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri, masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era pi? basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte dileguavano, parte vieppi? addensavano l'oscurit? della notte, accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a s? grande ed improvviso fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte, alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e della sua dignit?. Entr? per forza nella pontificia camera il generale di gendarmer?a Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto pi? condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto in Francia. Ricus?, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse di comparirgli avanti, e di fare alla dignit? sua tanto oltraggio; ci? non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere parato: di lui facessero ci? che volessero: dessergli pure supplizio e morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ci? solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva Radet, desse il nome dei pi? fidi, cui desiderasse aver compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche, nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerit? incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole, perciocch? ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di mandargli nella superiore Italia. Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse la nuova della commessa enormit?. Portavano i carceratori il pontefice molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante, l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomand? il pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocit? di volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per partire con maggior celerit?, che non era venuto. Lasso dall'et?, dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio: gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocit? venerare il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano per isventura, sacri per dignit?, sacri per santit?. Semi di distruzione di Napoleone erano questi; gi? le profezie di Pio si avveravano, gi? la pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto pi? incivile, quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perch? delle lettere dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, n? dove andasse. I Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti con servimento e rispetto: cos? aveva comandato Napoleone. Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e l'ordine, gi? l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa, un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma. Moscati orando, ringrazi? delle date leggi, Zondadari della data Elisa. Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della citt? dei sette colli, favell? dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere. < Braschi a Napoleone signore parl? di Cesare, di Nerva, e di Trajano: avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e perch? parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocch? Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: cos? non re dei Romani, ma di Roma chiam? poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e pi? spesso ancora ne piansi. Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro: gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli non ammettere pi? alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo usare a benefizio loro: ci? non ostante non intendere, che alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai Ges? Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranit? temporale: la Romana sede essere la prima della cristianit?, essere il vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore, volere dar a Dio ci? che ? di Dio, a Cesare ci? che ? di Cesare. Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima prese il magistrato, pens? alla sicurezza del nuovo stato, sapendo quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene spiare sul bel principio i pensieri pi? segreti degli uomini: ordinava la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti, Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano fede. Ci? quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti, anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e data al direttore della posta di Francia. N? la cosa fu solo in nome; perch? con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere, massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati, che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne lessero delle colpevoli contro la nuova signor?a; ne lessero anche delle ridicole, perch? i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle. Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle notizie, n? potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali: furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, n? senza grande umilt? loro. La consulta l'abol?; sostituivvi le forme Francesi. Il consiglio municipale di Roma chiam? senato: elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di Roma. Cos? andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella citt? imperiale e libera di Roma. N? le leggi civili e criminali di Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si promulgavano s? quanto alle persone, s? quanto alle cose, s? quanto ai dritti, e s? quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente. Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e prudente ch'egli era. Le casse intanto pi? di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura. Conserv? la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione, aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone, e da lui impetr? anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna, che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie. La parte pi? malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il papa, gi? fin quando le Marche erano state unite al regno Italico, proibito i giuramenti: conferm? questa proibizione per lo stato Romano nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficolt? nel giurare la fedelt?, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di fedelt?, perch? credevano, che importasse il riconoscere l'imperator Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter consentire, non avendo il papa rinunziato. N? si poteva pretendere, che uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo sapevano, che il papa era sovrano di Roma da pi? di dieci secoli, come tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel miglior modo possibile protestato contro la spoliazione. Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. And? discorrendo, la legge divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella che ? sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cio?, che non si debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente illecite: non potere l'autorit? ecclesiastica derogare n? in tutto n? in parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di fedelt? senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero, perciocch? le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di Roma con mire del tutto umane, cio? per turbare il possesso al nuovo governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il papa operato come capo della Chiesa, n? come vicario di colui, che disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegn? co' suoi precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potest? temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea che oggid? importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali pi? di quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e cos? ancora altre insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare secondo i loro principj religiosi: gi? parecchi vescovi dello stato Romano, gi? un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi, tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ci? porre grandissima cura, che gli ecclesiastici, i quali gi? si erano uniformati, o sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti segni di soddisfazione e di confidenza. Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla al nuovo stato, e di pi? di giurare di non partecipar mai in nissuna congiura o trama qualunque contro di lui, cos? un governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di fedelt?, s? perch? gli pareva che un tal giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, s? perch? volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo, troppa scrupolosit? da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocch? gl'intimati potevano intendere la parola fedelt? non oltre il senso dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si potesse giurare fedelt? a quel governo, che era stato creato dagli occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranit? temporale, cio?, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione, prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio, la materia aveva in se molta difficolt?. La Romana consulta procedeva cautamente. Operando alla spartita, cominci? dai vescovi. Alcuni giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni: ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia, Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocch? pi? lo sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e pi? rideva e si burlava di loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli spiatori di Napoleone, e di? che fare a tutti dal duca di Rovigo fino all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni e di San Pietro in Roma, tutti ricusarono, salvo Vergani e Doria. Quei di Tivoli e di Viterbo, tre soli eccettuati, giurarono. Giurarono quei di Subiaco, ad instigazione dei Tivolesi; ma si ritrattarono. Ricusarono quei di Canepina, ricusarono quei di Cori: i gendarmi s'affaccendavano. Molto maggiore difficolt? avevano in se i giuramenti dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita, e d'evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidj spirituali, ma ancora pei temporali. Rappresent? la consulta, che in questo opinava saviamente, che s'indugiasse. Napoleone, che per la sua natura pertinace amava meglio usare ogni estremo, che allentare un punto solo delle sue deliberazioni, mand? loro dicendo, che voleva i giuramenti da tutti, ed obbedissero. Nelle province la maggior parte ricusarono; i gendarmi se gli portarono. Dei Romani, i pi? si astennero: tre giurarono, quei della Traspontina, di Santa Maria del Carmine fuori di porta Portese, della Madonna della Luce in Trastevere: i renitenti portati via, o se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San Calisto; i consenzienti accarezzati. Nasceva dagli esilj una condizione lagrimevole, che gli ufficj divini per la mancanza dei pastori s'interrompevano. Napoleone, posta la falce nella messe ecclesiastica, a suo modo vi rimediava. Sopprimeva di propria autorit? i vescovati e le parrocchie dei vescovi, e dei parochi non giurati, e secondoch? gli aggradiva, gli univa ai vescovati e parrocchie dei giurati, turbando in tale modo di per se, la giurisdizione spirituale come voleva, ed a chi voleva. A questo tempo furono soppressi nello stato Romano i conventi s? di religiosi, che di religiose; i forestieri mandati al loro paese, i paesani sforzati a depor l'abito. Mandaronsi i soldati a far uscire le monache, tempo ventiquattr'ore: le valide d'et? e di salute mandate alle case loro, le vecchie ed inferme in quattro conventi. L'aspetto di Roma a questi giorni compassionevole: gendarmi, che si portavano vescovi, canonici, parochi giovani, parochi vecchi, sani o malati, o dal contado a Roma, o da Roma all'esilio. Piangevano gli esuli, piangevano le famiglie degli esuli: i Romani colli risuonavano di querele e di pianti. Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ci? s'ingegnava di fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze, alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordin?, che con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessari alla specola del collegio Romano; condusse a fine i parafulmini della basilica di San Pietro stati principiati da papa Pio, ebbe speciale cura delle allumiere della Tolfa, e delle miniere di ferro di Monteleone nell'Umbria, nelle quali si era cessato di cavare ai tempi delle ultime guerre civili, quantunque il ferro sia assai pi? arrendevole e dolce di quello dell'isola d'Elba. Gente perita, denaro a posta addomandava; due allievi Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze nell'ecclesiastica Roma. Temevasi che la presenza dei Francesi in Italia, massimamente in Toscana e nello stato Romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore dell'Italiana favella; timore del tutto vano, perciocch? quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il quale, non so per quale strana fantasia, aveva unito Toscana e Roma alla Francia, ed introdottovi negli atti pubblici l'uso della lingua Francese, aveva, gi? fin dall'anno ultimo, decretato premi a chi meglio avesse scritto in lingua Toscana. La consulta di Roma a fine di cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ci? muovendola Degerando, statuiva, che la lingua Italiana si potesse in un con la Francese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altres?, che l'accademia dagli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura Italiana promuovesse, e la lingua pura ed incorrotta conservasse con premi a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi, l'Arcadia sedesse sul Gianicolo nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura degli uomini, alle Romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a pi? magnifico stato. La consulta le dava pi? copiosi sussidi, l'imperatore pi? convenienti stanze, e dote di centomila franchi. Parlando io dei benefizi delle lettere, non voglio passar sotto silenzio l'amorevolezza usata dalla consulta verso il convento di San Basilio di Grottaferrata, unico residuo dell'antico ordine di San Basilio, che primo fra le tenebre del medio evo port? in Europa la cognizione della lingua Greca, e con lei lo studio delle lettere. Nel coro e negli uffizi avevano questi monaci conservato la lingua ed il canto Greco, ma piuttosto per tradizione orale, che per lettera scritta. Ogni vestigio del canto Greco si sarebbe spento, se il convento fosse stato soppresso, ed i monaci dispersi. Supplicato l'imperatore dalla consulta, conserv? il convento. Ci? non ostante l'ordine si spense, perch? il secolo a tutt'altro portava, che a farsi frate, ed a cantar greco. Add to tbrJar First Page Next Page Prev Page |
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