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Munafa ebook

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Read Ebook: La trasformazione sociale La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero by Nitti Francesco Saverio

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Ebook has 81 lines and 10627 words, and 2 pages

LA VITA ITALIANA

DURANTE LA Rivoluzione francese e l'Impero

Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vog??, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI

PROPRIET? LETTERARIA

Tip. Fratelli Treves.

LA TRASFORMAZIONE SOCIALE

CONFERENZA DI

Dal 1789, quando scoppi? la rivoluzione francese, al 1814, quando, nel giorno d'ognissanti, si riun? a Vienna il congresso che credette di aver restaurato il diritto divino dei re, non scorsero che venticinque anni. Ma la vita di quei venticinque anni fu cos? intensa e cos? turbinosa; ma gli avvenimenti che si seguirono e si incalzarono furono tanti e s? vari, ma l'influenza di Francia su tutta Europa fu s? grande, che quel quarto di secolo appare, anche a chi meglio l'abbia penetrato, come uno dei periodi pi? interessanti e complessi della storia umana. Or tentare solamente di riassumere in una conferenza quale sia stata la vita d'Italia, durante quei venticinque anni, e quale la trasformazione sociale determinata dai fatti e dalle idee nuove, mi pare un tentativo cos? vano e una s? vana impresa, che io non avrei osato di parlare a voi, se non mi fossi lusingato e non mi lusingassi tuttavia, di poter fare, uscendo dal vecchio alveo delle ricerche, un tentativo di interpetrazione e di esplicazione di quei fatti, che finora sono stati, mi pare, troppo considerati sotto l'aspetto esteriore della politica e della narrazione, troppo poco nel loro contenuto essenziale.

Perch? la rivoluzione francese oper? profondamente in Italia e nondimeno le scosse che vi produsse non furono s? brusche e s? rudi come in Francia? perch? la trasformazione sociale, che in Francia non pot? compiersi se non a traverso tanto fiume di sangue, parve si compiesse in Italia pi? agevolmente, e non trov? grandi ostacoli e non ebbe ad abbattere dighe poderose? perch? invece solo a Napoli l'urto fu pi? vivo e la scossa pi? rude?

La rivoluzione francese ? contrassegnata da due grandi fatti: l'abolizione della feudalit? e il sorgere della borghesia, come classe di governo. In Italia, tranne forse a Napoli e in Sicilia, la feudalit? era se non morta, morente, e la borghesia gi? in parte padrona del potere politico. La rivoluzione, che ci venne di Francia, non dovette quindi urtarsi contro ostacoli tenaci, n? spezzarli per vincere: ma precipit? un movimento, che gi? v'era e trasfuse energie e speranze, che non erano forse ancor sorte.

Tutte le istituzioni del passato, quando noi le consideriamo al di fuori delle nostre credenze politiche e delle nostre credenze religiose e le studiamo nel tempo che furono, ci appaiono non solo prive di quelle colpe che si attribuiscono loro d'ordinario, ma necessarie: necessarie perch? furono e durarono. La schiavit? stessa, che offende tanto la nostra sensibilit? e che ci appare iniqua, non solo fu ai suoi tempi necessaria, ma benefica, perch? permise alla umanit? di svilupparsi e di progredire. Il fatto che non uno solo di quei pensatori dell'antichit?, che pure tentarono i misteri della natura ed elevarono la mente alle cime sublimi della speculazione filosofica pensarono di abolirla, ? la prova evidente che essa non poteva essere abolita. Lo schiavo era una necessit? della produzione, dato il modo come essa si svolgeva, e a lui stesso, che fu qualche volta uno di que' mirabili artisti, i quali trasfusero nel marmo o nel bronzo le pi? nobili visioni dello spirito e la cui opera sublime ? ancora per noi anonima, a lui stesso non venne forse in mente giammai la idea della liberazione.

La feudalit?, che ora ripugna alla nostra mente, e che noi quasi non comprendiamo come sia tanto lungamente potuta durare, non fu solo necessaria nelle sue origini, ma anche benefica. Essa sorse quando, a popolazione relativamente scarsa, corrispondevano grandi difficolt? di comunicazione e di trasporto e i vincoli erano rilassati e la sicurezza mancava.

Tutto ci? in Francia, come nei paesi di civilt? occidentale, era avvenuto lentamente, senza brusche scosse. V'? in tutti i grandi movimenti umani qualche cosa di fatale e d'inconscio. Il feudatario che, ignaro del dimani, per accrescere il suo reddito, avea portato il grano dei suoi vassalli in citt? e lo avea venduto, e avea, per aumentare la sua entrata, create comunicazioni fra la campagna e il borgo, non avea forse nemmeno avvertito che la creazione di una classe sorta dal traffico e il conseguente aumento della popolazione, doveano formare la rovina di coloro stessi che li aveano determinati. La monarchia francese, man mano che la feudalit? s'indeboliva, e che perdeva lo scopo per cui era nata, diventava invece pi? potente. E l'aristocrazia, che non voleva farsi assorbire e non sapeva, si trovava impoverita dal crescere in numero e in ricchezza del terzo stato.

In Italia, invece, il passaggio dalla fase feudale alla fase nuova non fu forse contrassegnata da nessun periodo di violenza. La feudalit? in Italia si poteva dire gi? fiaccata nella sua essenza, quando la rivoluzione le diede in Francia il tracollo: da noi, tranne forse nel Mezzogiorno, il sistema feudale non era che quasi del tutto alla merc? dei sovrani.

Solo a Napoli e in Sicilia, la minor densit? di popolazione, determinata in parte da necessit? storiche, in parte pi? grande ancora da vera necessit? geografica, e quindi gli scarsi commerci e il debole sviluppo degli scambi, permisero che la feudalit? durasse pi? a lungo e fosse pi? salda. Il bisogno di sicurezza e di protezione, che induceva anche i liberi ad asservirsi, dur? nel Mezzogiorno molto pi? a lungo che altrove. La feudalit? inoltre vi era stata trapiantata dai Normanni in tutta la sua potenza e in tutto il suo vigore e, perch? si potesse scuoterla, bisognava un pi? lungo cammino ed era necessaria una pi? rude scossa. Forse appunto per queste cause la rivoluzione francese dest? a Napoli i moti del 1799; ed ? senza dubbio perci? che in Sicilia, dove la presenza dei Borboni non le permise di agire, si risentono tuttavia i danni di una istituzione, che ancora nelle consuetudini e nella coscienza, se non nella legge, qualche volta permane.

La feudalit?, quando in Francia era ancora salda, o almeno si ostinava a resistere, in Italia era dunque quasi generalmente fiaccata. I 1023 patrizi di Venezia, che nel 1780, secondo l'anagrafe, partecipavano al governo, erano troppi per formare un'aristocrazia. Quando non speculavano essi medesimi, poich? le virt? antiche aveano perdute, quando non consumavano le ricchezze dei padri, le quali erano sparite, ricercavano attivamente impieghi e sinecure. Negli Stati Romani il governo della Chiesa avea snaturata l'indole del feudo fin da parecchi secoli prima: la ricchezza era ammassata in poche mani, ma la feudalit? non avea pi? nulla dell'antica rigidezza. Il consolidarsi della monarchia e le leggi del 1720 le avevano dato gi? il tracollo nei domin? del re di Sardegna. In Lombardia il dominio austriaco e pi? ancora le tradizioni di libert?, che nemmeno la Spagna era riescita a soffocare, avevano agito anche pi? rapidamente. In Toscana non l'opera soltanto dei principi, ma la stessa costituzione del paese, ove a una popolazione sparsa corrisponde e corrispondeva gi? allora una produzione agraria abbondante, impedivano che la feudalit? potesse durare.

Solo a Napoli e in Sicilia, nonostante la lunga lotta con la monarchia, la feudalit? durava ancora, bench? impoverita di forze e resa quindi pi? avida e pi? prepotente.

Come sarebbe potuta finire?

Le cause che l'avevano fatta nascere, in parte almeno, vigevano ancora: la classe media, la quale sorgeva meno col traffico che dagli affittuari e dai curiali, era, per la sua origine stessa, incerta e timida. Gli affittuari, spesso infidi, arricchivano forse sui padroni: ma non pensavano a prenderne il posto. I curiali, disposti sempre a difender tutto -- la qual cosa ? sempre nella natura del curiale -- non avevano che desiderio di nobilitarsi e speranza di arricchire.

Nel regno di Napoli, nel 1734, sopra 2265 citt? e luoghi abitati, 2226 eran feudali e 59 appena demaniali, cio? soggetti pi? da vicino alla legislazione del principe. Ancora nel 1786, cio? tre anni prima che la rivoluzione francese scoppiasse, regnando a Napoli Ferdinando I, malgrado la rude lotta che i Borboni avevano mossa alla feudalit? e l'aiuto concesso alle citt? perch? si riscattassero, vi erano tuttavia 1881 citt? e luoghi abitati feudali.

In Sicilia i baroni erano ancora pi? potenti e pi? audaci: possedevano, dopo la rivoluzione francese, il cui nembo procelloso non era riescito a soverchiarli, oltre la met? dell'isola, e in tutta la Sicilia buona parte delle pi? vessatorie consuetudini baronali regnavano come nel passato.

I Borboni di Napoli, quale che sia il giudizio che si possa dare di essi, avevano cercato d'infrenare i baroni, conscii forse, almeno per vago istinto, che la forma feudale sarebbe venuta a sfasciarsi; e che come era una limitazione pericolosa del potere regale, immobilizzava le forme della produzione e non consentiva che i nuovi bisogni di una popolazione cresciuta, venissero soddisfatti.

La rivoluzione ebbe in Francia cos? violenta forma e fu cos? brusca e rude, perch? mentre la classe intermedia si era gi? del tutto formata, la feudalit?, basandosi sulle consuetudini antiche, malgrado le invasioni del potere regale, regnava tuttavia potentissima.

In Italia il feudo era in gran parte della penisola gi? morto, se non nella legge, nella realt?. La rivoluzione francese si ripercuot? dunque pi? fortemente l? dove, come a Napoli, la forma feudale durava pi? tenace.

Ed ? perci? che noi assistiamo a questo fatto strano. Mentre in Francia l'aristocrazia ? quasi del tutto avversa alla rivoluzione, in Italia, dove il potere regale ha pi? infrenato il feudo, l'aristocrazia partecipa spesso ai moti rivoluzionari. La rivoluzione napoletana del 1799, che ? stata forse la pagina pi? bella della storia di Napoli, ? fatta da una parte da fittuari e censuatari desiderosi di riscattarsi e da curiali, cio? da componenti la classe media, tormentata dal bisogno del potere, e dall'altra dagli stessi nobili, i quali erano scontenti del potere regale.

Quando in Francia scoppi? la rivoluzione del 1789 l'impressione di tutta Europa fu immensa. La presa della Bastiglia fu salutata da tutti gli spiriti eletti, quasi dentro la carcere politica di Parigi ognuno avesse qualche cosa della sua anima, che sentiva il bisogno di liberarsi.

Noi abbiamo forse esagerato un po' troppo il risveglio intellettuale e morale d'Italia nel secolo scorso. Abbiamo detto troppo: -- se la spinta ci venne di Francia, in Italia eravamo gi? pi? innanzi e i nostri grandi pensatori, come Ortes, Filangieri, Genovesi, Beccaria e i nostri grandi letterati, come Alfieri e Parini, avevano gi? preceduta la rivoluzione.

Tutto ci? non ? vero. L'Italia era un paese in cui ogni audacia intellettuale si perdeva nello scetticismo delle classi pi? colte; dove, se pur non mancava qualche ardito pensatore, le classi di governo e quelle che aspiravano a succeder loro non osavano.

Giuseppe II d'Austria diede alla Lombardia leggi eccellenti: fiacc? la potenza feudale, accord? che tutti i cittadini fossero eguali dinanzi alla legge, riordin? le amministrazioni locali, protesse come pi? era possibile i contadini, cre? opere pie dovunque, svilupp? la cultura superiore: era l'assolutismo illuminato, che precorreva i tempi. Tutto ci? non fu fatto per opera di pensatori, ma contro di essi. Quando gli ufizi pubblici furono aperti a tutti, lo stesso Pietro Verri se ne dolse. Il filosofo osava rimproverare l'imperatore di ammettere ufficiali non nobili nell'esercito, "perch? -- egli diceva -- il sentimento di onore ? educato fra i patrizi, ma non fra gli altri.,,

Pietro Verri, il quale pare anche adesso uomo superiore al suo tempo, non faceva che seguire e da lontano le riforme che venivano di fuori: applaudiva quando erano imposte, ma non dissimulava il proprio dispiacere quando gli sembravano troppo audaci.

Lo stesso Cesare Beccaria, il cui spirito era veramente francese, e che s'era, com'egli medesimo confessa, formato su Montesquieu e su Helvetius, pareva anch'egli non precorrere, ma seguire a malincuore le riforme che venivano dall'alto. Membro e relatore di una giunta nominata da Giuseppe II per l'abolizione della pena di morte, egli credeva indispensabile mantenerla in caso di regicidio e di cospirazione contro lo Stato. E anche in questi due casi, quasi nello stesso tempo, l'aboliva per spontanea iniziativa, un principe di sangue austriaco, Leopoldo di Toscana.

Gli stessi statisti, filosofi ed economisti, che la nostra compiacente vanit? ha esaltati, non aveano quasi alcuna delle grandi audacie di pensiero degli scrittori di Francia: non facevano che uno sforzo continuo per adattare il vecchio al nuovo, per seguire ci? che loro era quasi sempre imposto da una volont? superiore.

Carlo Goldoni e Carlo Gozzi sono realmente seguaci del vecchio regime: se il primo diventa senza volerlo, forse anche senza saperlo, un riformatore ? perch? egli porta sul teatro i fatti della vita reale e i fatti non hanno mai la facile compiacenza delle opinioni.

Quell'oscuro Giammaria Ortes, tanto esaltato negli ultimi tempi, sopra tutto da chi non lo ha mai letto, quell'oscuro monaco, che sembra profondo sempre perch? sempre oscuro, dopo aver forse intravvisto quella che fu pi? tardi la teorica malthusiana, non sa proporre che di difendere i beni di manomorta e i fedecommessi a famiglie, a chiese e a luoghi pii: al terribile problema, che nella quiete solenne del suo triste monastero gli si affaccia alla mente, non vuol dare altra soluzione se non quella di aumentare la zuppa dei conventi. E quando, nella sua famosa relazione, il cavaliere Andrea Tron, che fu s? veggente nello scoprire i mali della repubblica e s? cieco da non scoprire quelli di casa sua, constata il decadere della forma antica, non sa indicare alcun rimedio: indicarne forse gli par vano.

La mente che vede non osa. Accade qualche volta che, come in Toscana, l'opera dei principi riformatori ? appoggiata da uomini di chiara mente, come quel vescovo Scipione dei Ricci, che parve uomo di altri tempi e fu anima di profeta e di apostolo: ma non ? che eccezione solitaria. In generale si assiste a questo fatto singolare, che mentre i nuovi bisogni della classe che sorge si affermano, nessuno osa interpetrarli. Le riforme vengono dall'alto e la massa le accetta quasi a malincuore.

Napoli, che ebbe nel secolo passato alcuni fra i pensatori pi? potenti d'Italia, trov? anch'essa uomini che li precedettero. Lasciamo stare Vico: egli, che mor? quasi mezzo secolo prima che la rivoluzione francese scoppiasse, non fu uomo del suo tempo. Vico, il quale cre? non una ma parecchie scienze, e che bene a ragione parl? di scienza nuova, non ebbe fra i suoi contemporanei quasi alcuna importanza. Trascin? vita miserabile fra gente di cui non riesc? a vincere la indifferenza e fu modesto uomo e rassegnato alla crudelt? del destino.

Ma Giannone, ma Galiani, ma Genovesi, ma lo stesso Mario Pagano, che furono fra gli spiriti pi? illuminati del tempo loro, alla vigilia della rivoluzione francese quasi non prevedevano la trasformazione che si andava compiendo.

Giannone fu veramente figura grande di novatore: ma la lotta contro la prepotenza ecclesiastica lo assorb? tutto.

Galiani era troppo scettico e troppo sottile per aver fede in qualche cosa.

Genovesi non propugna se non quelle istituzioni le quali sembrano pi? adatte allo sviluppo e alla costituzione di una classe media: libera circolazione e divisibilit? della propriet?, libert? e sicurezza di commercio, libert? di lavoro. Fra coloro che non producono reddito materiale o immediato, eppure, come egli dice, giovano alla societ?, non esita a mettere coloro che vivono di reddito. Nel popolo egli non avea fiducia alcuna: anzi lo volea lontano dalle pubbliche faccende. Pi? che un riformatore egli ? il ponte di passaggio fra il vecchio e il nuovo: egli ? l'innovazione che non si stacca dalla tradizione. Vuole che la riforma venga dall'alto piuttosto che dal basso: -- quivi non vede che l'ignoranza e il male.

Ma che pensare di Mario Pagano, il quale quando gi? la rivoluzione francese era scoppiata e si preparava nelle coscienze la rivoluzione napoletana del 1799, quando gi? si era alla vigilia di quei fatti per cui egli dovea lasciare miseramente la vita, difendeva il feudo e ne additava le ragioni di necessit??

Filangieri che moriva appena a 36 anni, pochi mesi prima della presa della Bastiglia, Filangieri nobile, e pur aperto a tutte le idee democratiche, appare quasi come il solo che abbia osato. Ed egli era uomo di governo e, come tanti altri uomini di governo, attendeva la riforma dall'alto; e non avea tutti i torti di attenderla, poich? l'opera dei principi era parsa ed era, almeno in Italia, pi? audace di quella dei filosofi.

Se qualche anima alfieriana insorge contro il tiranno immaginario, i tiranni d'Italia, sopra tutto quelli stranieri, erano, bisogna pur confessarlo, pi? avidi di novit? e pi? desiderosi di riforme che non i popoli stessi. Mentre nulla pareva li stimolasse, non spinti dai dotti, non costretti dalle masse, essi adottavano, quasi per spontaneo impulso, quelle riforme, le quali, non operate in Francia, a causa della potenza della feudalit?, dovevano dare s? violento carattere alla rivoluzione del 1789. Limitazione della propriet? ecclesiastica, soppressione dei privilegi fiscali, riconoscimento della giustizia come funzione di Stato e non come diritto dei baroni, restrizioni della giurisdizione feudale: tutto fu operato per volont? dei principi.

Cos? accade questo fatto singolare che, sopra tutto a Napoli, i nobili, dolenti della restrizione alla loro potenza, inclinano alla rivoluzione e, quando questa avviene ed ? il riconoscimento della esistenza del terzo stato, vi partecipano largamente. Gli uomini della rivoluzione napoletana del 1799 sono nella maggior parte o nobili ed ecclesiastici, o curiali. Nelle province l'eco della rivoluzione di Napoli ? pi? larga fra i fittuari e i censuatari desiderosi di affrancarsi.

Quando scoppi? la rivoluzione di Francia, i nobili, il clero, la borghesia e il popolo l'accolsero in Italia molto diversamente. Quest'ultimo non vi partecip? quasi affatto: troppo ignorante era e troppo depresso per lottare per conto proprio. Ma quando dov? seguire i liberali, o quelli che facevano la causa del principe, fu piuttosto per il principe. E non era solo ignoranza: ma era anche un istinto per cui avvertiva che i mutamenti i quali sopravvenivano non erano in suo favore.

Gli abitanti del feudo, laico o ecclesiastico, principalmente quelli di quest'ultimo, avevano ci? che oggi non hanno: il diritto all'esistenza era garentito loro dagli usi civici, i quali se impedivano al feudo di trasformarsi, davano al popolo quel minimo necessario a una esistenza sia pure inferiore.

L'aristocrazia, il clero e la borghesia, rappresentanti interessi diversi, accolgono la rivoluzione con sospetto, come accade quando avviene un gran rivolgimento, di qualunque natura esso sia. Se non che di queste tre classi nessuna era contenta: la terza perch? aspirava al potere e voleva parteciparvi molto pi? largamente, le altre due perch?, nei mutati ordini e nella soverchiante potenza del principe, avevano vista la loro diminuzione.

L'aristocrazia era in condizioni da non poter durare a lungo come unica classe di governo. Non occupandosi pi? solamente di guerra era andata perdendo a poco a poco l'antica gagliardia: a Venezia pitoccava ufizi e spogliava il continente, a Roma si manteneva chiusa all'ombra del dominio papale; in Piemonte, gi? fiaccata dalle leggi del 1720, era per? ancora ignorante e guerriera; a Napoli e in Sicilia, diminuita dal principe ma non domata, cercava di rialzarsi.

Un amabile scetticismo regnava un po' dovunque: i rapporti sociali erano rilassati. La fedelt? coniugale, sopra tutto a Venezia e in Lombardia, noi la vediamo fra gli aristocratici considerata come una virt? borghese che disqualifica coloro che la praticano. Non era raro il caso che dame eleganti e gentiluomini di famiglie nobilissime conversassero di Voltaire e di Rousseau e, perfino nei parlatoi dei conventi, la filosofia francese s'insinuava insieme ai discorsi del giorno. Come adesso le dame eleganti fra un peccato e l'altro parlano di Tolstoi, parlavano allora di Rousseau. E fra le dottrine di questi due filosofi, che tendono a tornare, per sfiducia nella civilt?, allo stato di natura, e fra le cause che in due societ? decadenti le hanno prodotte, vi ? pi? grande affinit? di quel che non sembri da prima. Come pi? la lotta del potere regale tende a diminuire la nobilt?, tanto pi? noi la vediamo aprirsi alle idee nuove e accoglierle e incoraggiarle.

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