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Munafa ebook

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Read Ebook: La trasformazione sociale La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero by Nitti Francesco Saverio

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Ebook has 81 lines and 10627 words, and 2 pages

Un amabile scetticismo regnava un po' dovunque: i rapporti sociali erano rilassati. La fedelt? coniugale, sopra tutto a Venezia e in Lombardia, noi la vediamo fra gli aristocratici considerata come una virt? borghese che disqualifica coloro che la praticano. Non era raro il caso che dame eleganti e gentiluomini di famiglie nobilissime conversassero di Voltaire e di Rousseau e, perfino nei parlatoi dei conventi, la filosofia francese s'insinuava insieme ai discorsi del giorno. Come adesso le dame eleganti fra un peccato e l'altro parlano di Tolstoi, parlavano allora di Rousseau. E fra le dottrine di questi due filosofi, che tendono a tornare, per sfiducia nella civilt?, allo stato di natura, e fra le cause che in due societ? decadenti le hanno prodotte, vi ? pi? grande affinit? di quel che non sembri da prima. Come pi? la lotta del potere regale tende a diminuire la nobilt?, tanto pi? noi la vediamo aprirsi alle idee nuove e accoglierle e incoraggiarle.

Straordinariamente ricco il clero e quasi egualmente ignorante. Tutte le avversioni dei principi erano riescite forse a infrenarlo, non certo a diminuirne la potenza.

Nel 1768, secondo statistiche accurate, nello stato di Venezia, che avea appena 2.655.484 abitanti, vi erano, oltre quelli di rito greco, 45.773 ecclesiastici, che avevano un reddito di 4.274.460 ducati. Ricca non meno e non meno corrotta, ma pi? ignorante forse, la classe ecclesiastica esercitava in Piemonte un potere immenso. In Toscana Rucellai pot? gi? dire che vi erano tre ecclesiastici almeno per ogni 100 abitanti: ci? che ? sicuro ? che anche dopo la rivoluzione francese, la settima parte del reddito annuale di tutto il paese era assorbita dai monasteri e dal clero secolare. Nello stato romano il clero era tutto e possedeva gran parte del territorio. Pi? mostruoso ancora l'accrescimento della propriet? ecclesiastica del Regno di Napoli, il cui reddito vediamo salire a circa 12 milioni di ducati nel continente e ad almeno 7 od 8 in Sicilia. Tanta ricchezza e potenza e il non esser costretti a lottare, il non dover quindi esercitare alcuna delle facolt? superiori dello spirito, avevano reso gli ecclesiastici, fatte poche eccezioni, avidi e corrotti.

Or fra l'aristocrazia, decadente e scettica, e il clero, corrotto dalla sua stessa potenza, s'era insinuata la borghesia. Per molti secoli le si era impedito ogni sviluppo, vietandole il traffico e gravandola di tributi: le esenzioni tributarie della propriet? feudale ed ecclesiastica non erano determinate se non dal bisogno d'impedire lo sviluppo del terzo stato. Ma della lotta fra il principato e il feudo si avvantaggiava appunto la classe borghese, la quale nel secolo passato, prima che in Francia, era in Italia gi? potente.

Se non che, appunto per questa composizione della classe media, essa non avea n? rapidi slanci, n? grandi audacie: qualche volta, anche quando parlava di riforme, era presa dagli scrupoli curialeschi, e vi si dimostrava meno adatta di quei principi contro cui lottava in segreto o in palese.

Composta degli elementi pi? vari, la classe media italiana della fine del secolo passato vivea meno del traffico, che della curia e della Chiesa: strano impasto di cadetti, di ecclesiastici scontenti e di avvocati dai facili entusiasmi, non poteva concepire le rudi affermazioni del terzo stato di Francia.

La rivoluzione napoletana del 1799, che ? la pi? bella pagina della storia di Napoli, poich? si vide -- da gran tempo forse per la prima volta -- che gl'italiani non aveano disappresa l'arte di saper morire, la stessa rivoluzione napoletana ebbe un singolare carattere: poich?, lungi dall'essere l'affermazione esplicita del terzo stato, essa risultava come fatta in gran parte di quegli interessi che il principe avea offesi.

Fra i novantanove martiri, dal 29 giugno 1799 all'11 settembre del 1800 , tre ceti prevalgono su tutti gli altri: i nobili, gli ecclesiastici e i curiali. Mentre nelle province sono i fittuari e i censuatari che si ribellano nel desiderio della loro affermazione economica, nelle citt?, dove la lotta ferve pi? intensa, sono coloro i cui interessi erano stati pi? offesi, i quali si coalizzano con coloro che desiderano prevalere.

Quando il terzo stato si vuole affermare esso non ?, almeno nel Mezzogiorno, rappresentato che da una frazione, quella che pi? abusa della ideologia giuridica. E gli altri due stati superiori tendono a far causa comune con esso, almeno nelle frazioni pi? scontentate dalla violenza riformatrice dei principi.

Fra i 14 giustiziati di Napoli appartenenti a classi aristocratiche erano rappresentate le pi? grandi famiglie: Gennaro Serra, principe di Aliano; Ettore Carafa, conte di Ruvo; Filippo de Marini, marchese di Genzano; Giuseppe Riario Sforza, marchese di Corleto; Francesco Federici, marchese di Petrastornina; Ferdinando Pignatelli, principe di Strongoli; e Mario Pignatelli e altri, che aveano nobilt? di censi e di nome. Alcuni di essi erano a dirittura fanciulli: non avevano che ventun anno appena De Marini e Riario Sforza; venticinque ne avea Gennaro Serra; ventisei Mario Pignatelli.

Ben 15 erano ecclesiastici e fra essi ve n'erano di vita illuminata e di mente alta, come il padre De Meo dei Crociferi; don Francesco Conforti, don Vincenzo Troisi, don Giuseppe Guardati e don Eusebio Scotti, professori all'universit? e Severo Caputo e Ignazio Falconieri e Michele Granata e Nicola Pacifico e tanti altri ecclesiastici, anch'essi insegnanti e di vita esemplare.

Fu questa varia composizione, che tolse al movimento la sua unit?. In Francia il terzo Stato, cominci? col proclamare la propria esistenza, poi appena pot? abol? la feudalit? e soppresse tutti i vincoli che gl'impedivano di svilupparsi. La rivoluzione napoletana non os? e non volle.

La rivoluzione napoletana non poteva osare. E il sistema feudale fu abolito nel regno di Napoli da un principe venuto di Francia da conquistatore, da Giuseppe Bonaparte nel 1806. Caso veramente singolare, che rivela come il malcontento ecclesiastico e aristocratico contro la violenza riformatrice dei principi, abbia determinato l'unione degli elementi pi? diversi in un'avversione comune: non certo per uno scopo comune.

Ci? che la rivoluzione di Francia port? all'Italia fu un contributo di idee nuove non solamente, ma sopra tutto quella violenza giacobina, che anche nei suoi eccessi e nei suoi errori, dovea infondere vita nuova a un paese ove ci? che mancava era appunto l'energia. Si era troppo attaccati alla tradizione, troppo devoti al passato. Si credeva che il meglio che si potesse fare fosse di tornare all'antico.

Il caso del senato di Lucca, che sedeva a permanenza anche la notte, per decidere se si dovesse o pur no pensionare un sergente, rappresenta molto pi? di quel che non si creda la vita d'Italia di quel tempo.

Or lo spettacolo di un paese che rompe di un tratto con ogni tradizione del passato fu come una trasfusione di energia.

Tutto ci? veniva a uccidere lo spirito di tradizione e dovea, in un paese come l'Italia, rovesciare di un tratto le basi della vecchia societ?. Questo popolo d'Italia, che non sentiva ancora n? bisogno di unit?, n? dignit? di nazione, dovea cominciare a risentirli sotto la tirannide democratica.

Era parso per secoli che prudenza di legislatori e arte di sapienti fossero non gi? di guardare avanti, ma di ritornare all'antico. La rivoluzione scuoteva tutto ci?. Noi ridiamo, vedendo che, nelle leggi francesi emanate in Italia, si sia agito con tanta leggerezza, da confondere i fiumi coi monti e da prendere i monti per citt?. Ma quella stessa frettolosit? e quella stessa violenza trasformatrice agirono come una trasfusione di sangue.

Quegli eserciti rivoluzionari, i quali predicando eguaglianza e libert? scendevano a spogliarci, mentre con le loro dottrine mettevano il lievito nella vecchia civilt? italica, con le loro azioni contribuivano a inasprire gli animi e a ridestare la sopita coscienza nazionale.

Gl'italiani, vedendo principi abbattuti da un giorno all'altro e sovrani da un giorno all'altro creati, cominciavano ad aprire gli occhi e ad acquistar fede in s? stessi e a credere che la servit? non fosse eterna. Quei francesi, i quali pur derubando il paese lo covrivano di strade e lo disseminavano di scuole, ridestavano le dormienti energie e accendevano la fede nell'avvenire.

L'Italia non avea forse mai avuto vere guerre religiose e la vicinanza estrema del papato avea uccise quelle idealit? per cui rivi di sangue venivano fuori d'Italia versati. L'arte di saper morire, pi? difficile di quella di saper vivere, non era che di qualche solitario pensatore e di qualche solitario apostolo.

Invece la rivoluzione d?, forse per la prima volta, il vero disprezzo della vita. La cultura e la intelligenza, che parevan privilegio di curiali servili e di timidi maestri, ingrossano le liste dei giustiziati e servono a creare una schiera di martiri e a far spuntare dalla terra insanguinata il rosso fiore della vendetta. I Borboni giunsero a Napoli riformatori e audaci e la rivoluzione in alcuna parte precorsero. Ma i moti del 1799 diedero ad essi, timidi e quindi crudeli, il bisogno della repressione violenta. Fu da questa repressione violenta che l'amore della libert? e la tradizione del martirio nacquero e prosperarono.

L'esempio di Francia dava assai spesso ai martiri nostri non solo la indifferenza della morte, ma anche quella tragica grandezza, che si trova solo nelle grandi crisi dei popoli. Quei nobili, quei sacerdoti, quei curiali di Napoli che salivano il patibolo, aveano tutti dinanzi agli occhi l'esempio dei martiri francesi e morivano come essi e parlavano allo stesso modo, il medesimo linguaggio, ricco di iperboli e di grandezza.

Sono i 99 giustiziati del 1799, la cui storia, raccolta amorosamente da Francesco Lomonaco, scritta con sobriet? antica da Vincenzo Coco, idealizzata da Pietro Colletta, determinano pi? che ogni altra cosa la rovina di casa Borbone a Napoli e sono, per tutta l'Italia, come il lievito sanguinoso della riscossa futura.

La stessa impresa napoleonica, che passa come un nembo procelloso e schianta le vecchie tradizioni, non fa che destare la coscienza nazionale in quelle genti che l'avean forse perduta.

La storia d'Italia dal 1789 al 1814, la trasformazione sociale che in questo periodo venne a compiersi, non sono argomento di una conferenza. Troppe cose mutarono, troppe istituzioni nuove sorsero e troppe sparirono. La vita di quei venticinque anni fu pi? intensa di quella di qualche secolo. Le classi sociali non erano in Italia cos? nettamente divise come in Francia, perch? la trasformazione era gi? avvenuta: fu per questo che i moti italiani non ebbero l'irrompere vertiginoso della rivoluzione di Francia. Qualche volta i sovrani contro cui s'insorgeva aveano socialmente idee pi? larghe e pi? riformatrici di coloro che insorgevano, e gl'interessi offesi che si ribellavano contro di essi rappresentavano appunto quegli interessi contro cui il terzo stato lottava.

La societ? nostra, cos? com'?, ? sorta in quel periodo di tempo, quando la propriet? individuale si afferm? in tutta la sua potenza e la forma antica decadde.

Non vi fu nella trasformazione qualche cosa che la classe vincitrice volle con soverchio egoismo ottenere? L'abolizione di tutti quei diritti, che garentivano il minimo di esistenza alle masse e attutivano gli urti pi? dolorosi fu veramente un benefizio? Lo spirito individualistico e atomico, che s'infiltr? nelle classi dirigenti e che parve distruggere ogni opera collettiva, fu veramente un bene? Noi non oseremmo dire e non vorremmo.

Ogni reazione tende per sua natura a eccedere. E noi invochiamo oggi, pi? nuove e pi? larghe, molte di quelle forme che abbiamo disfatte e invochiamo quella solidariet?, che il giacobinismo individualista volle sradicare. L'immenso fiume della umanit? anche questa volta rimonta, e noi, che non ne sappiamo le origini lontane e che non ne vediamo n? forse ne vedremo giammai la pi? lontana foce, siamo trascinati dalla corrente, per vie che, buone o false, sono sempre necessarie.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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